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Addii - Lattuada e gli sguardi inquienti del cinema italiano

Pubblicato il 2 luglio 2005 da Armando Chianese


Addii - Lattuada e gli sguardi inquienti del cinema italiano

Un unico disperato sguardo, condiviso teneramente con lo spettatore come un prezioso segreto, fa da cornice pregiata ad un triste addio. Inesorabile come il lento incedere di un treno o le pale di un vecchio mulino in balia del vento, variegato nella sua ripetitiva ossessione: quello quasi “in machina” della sua Jacqueline Sassard nel finale straziante di Guendalina (1957), quello ingenuamente malizioso di Catherine Spaak intenta a preparare Dolci inganni (1960) e conturbanti, ma non ultimi, i glaciali occhi da libertina vogliosa della Cicala (1980) Clio Goldsmith.

L’ultimo commiato ad Alberto Lattuada (Milano 1914 - Roma 2005), “lungo” in questo caso perché avvenuto dopo un’estenuante malattia, passa soprattutto attraverso un fervido ricordo - dello spettatore quanto del critico - di un particolare cinema fatto di sguardi come specchi deformanti e deformati di anime semplici verso la perdizione. Sguardi che hanno quasi la stessa valenza dei corpi, sinuosi ma acerbi o debordanti ma maturi che essi siano, di un regista calligrafo sin dall’inizio che ha usato la sua arte silenziosamente, sempre con impeccabile stile. Il cinema, arte secondo la quale “...nulla è in grado di rivelare meglio i fondamenti di una nazione”; Questo Lattuada affermava già alla metà degli anni ’40 con Cinecittà ridotta a un ex deposito nazista, quando sarebbero trascorsi ben due decenni e passa prima che, irrompendo con determinato garbo nelle realtà della ricca borghesia, avrebbe scoperto che niente è più fantasioso e pericoloso di un realismo a tutti costi. Niente è più sordido del reale. Così sondando il marcio nascosto in una classica e oleografica scenetta familiare, un finto ma funzionale escamotage costruito sommariamente come il sole cartapesta di in una scenografia da recita di fine anno, avrebbe trovato i germi del possibile rinnovamento. Un cambio di rotta provvidenziale che, con la famiglia che allargandosi diviene un orgia di nomi e lontane parentele e il nucleo primordiale che si tramuta in freudiano triangolo, ha fatto parlare di nuova visione (Barocca? Estetizzante?) del neorealismo. Ma è piaciuto molto ai francesi e ha intrigato gli americani quando le forme dei corpi si sono fatte più delineate e gli sguardi sono divenuti perennemente ammiccanti. Porte per le quali passa solo la malizia e la provocazione. Il sentimento oramai è sepolto sotto le macerie dell’istituzione, della famiglia, demolita col pesante piccone dell’egoismo sfrenato, dei benefit e degli assegni circolari.

Lattuada è morto facendo in tempo a vedere restaurato lo chalet in cui nel ’49 aveva girato Il Mulino del Po’, per poi spegnere per sempre quel suo sguardo gentile che timidamente prestava alla macchina per realizzare a modo suo la più grande magia del ‘900. Era stato tra i primi a rifondare un cinema morto anch’esso sotto i bombardamenti, ferito a morte ancora prima dai film-propaganda e dai falsi miti del regime. Laureato in architettura ma con il palato fine del critico iniziò scrivendo recensioni e articoli su riviste particolari come Corrente e Domus, fondò con grande coraggio insieme ad altri la cineteca Mario Ferrari ora divenuta cineteca Italiana, nella sua Milano. Era inevitabile che finisse a Roma a bighellonare sui set dei film della riscossa, lo troviamo lì già nel ’41 come assistente di Mario Monicelli in Piccolo mondo antico e poi l’anno dopo con Ferdinando Maria Poggioli per Sissignora. Ma a stare alle dipendenze di un altro regista Lattuada proprio non ci riesce e con facilità assoluta passa immediatamente sulla prima sedia della troupe e in cabina di montaggio con Giacomo l’idealista (1943), tratto dal romanzo omonimo di Emilio De Marchi. Ed è subito uno sguardo infelice - quello di Marina Berti ripudiata dopo uno stupro dal suo amato - che graffia lo schermo come segno indelebile, tangibile, di uno stile ben definito che con l’andare del tempo non può far altro che perfezionarsi. Sublimarsi in una annunciata rarefazione, che accadrà con l’abbandono da parte del regista dell’opera letteraria come irremovibile punto fisso della maturazione di tutti i lavori che affronterà in seguito. Così si getterà a capofitto nell’arduo compito di narrare La nostra guerra (1945) ma contemporaneamente si terrà sui temi a lui più congeniali, l’amore tradito e il traumatico superamento dell’adolescenza in primis, con La freccia nel fianco (1945) attenendosi ancora al plot di un romanzo, quello di Luciano Zuccoli. Prima di approdare alla co-regia con Federico Fellini di Luci del varietà (1950) si impegnerà anche ad inseguire marcatamente il neorealismo contaminandolo però con temi a lui cari, da cinèphile di vecchio stampo, e tenendosi ben lontano dalle specialità nostrane a base di cinema d’utilità sociale o didascalico. Il suo Amedeo Nazzari ne Il bandito (1946) è una sorta di gangster dallo sguardo languido, triste alla pari dei poveri braccianti de Il mulino del Po’ dalla terza parte del romanzo di Riccardo Bacchelli. Dalla collaborazione con Fellini in poi, Lattuada, si ritroverà ad inseguire i suoi gusti da onnivoro lettore su celluloide. Trova a lui congeniale il racconto di Giovanni Verga La lupa e ne realizza una trasposizione con la sensuale Kerima come vera anima - persa nel gioco al massacro di una lussuria mai fine a se stessa - dell’intera pellicola. Avverrà all’inizio degli anni ’60 l’inizio della sua particolare indagine tra le infelicità e gli umori dei figli della ricca borghesia. Se Guendalina e Dolci inganni guardano alle figlie libertine, alquanto psicotiche, di una generazione rigogliosa ma irrimediabilmente avviata verso il disfacimento. L’infelice professore che diventa spietato rapitore ne L’imprevisto (1961) e la ricca e seducente signora de L’amica (1969) non potevano che essere le altre facce della medaglia di una difficile epoca di transizione, il lato estetizzante del grande boom che non guarda col microscopio il problema dell’appagamento come un bacillo su un vetrino ma lo affronta (come solo Moravia poi seppe fare in letteratura) in un modo nuovo e senza tabù di ogni sorta. Alberto Lattuada il grande erotomane, come dice l’amico Dino Risi nel suo libro biografico I miei mostri, resta a guardare con lucido distacco la società e i miti che cambiano attorno a lui, arrivando fino al kitsch degli anni ’80 col cuore leggero di chi ha riletto Bulgakov (Cuore di cane) in tempi apparentemente stonati facendo appartenere lo sguardo dell’uomo anche alla triste bestia del racconto, senza trapianti di ogni sorta. Ha affrontato il kolossal stupendosi che i 35mm fosse usati anche in Tv per il suo Cristoforo colombo e ha sperato dopo molto tempo di portare sul grande schermò il Vedrò Singapore dal romanzo di Piero Chiara riletto e riscritto assieme a Franco Ferrini. Poi lentamente si è defilato, apparendo magari in qualche piccolo ruolo da attore recitando a malincuore la parte del “grande vecchio” alle prese con nuove generazioni e altre storie in cui gli sembrava di essere alquanto inadeguato. Rifuggendo da qualche luogo comune e rifugiandosi in un universo solitario fatto di qualche retrospettiva e tante citazioni in storie del cinema di ogni genere e rigore. Alberto Lattuada, ha preferito rimettere a noi suoi semplici spettatori, suoi profondi estimatori, i peccati di un periodo che fu e le magagne di un Italia in profondo cambiamento. La morte di questo eclettico regista, al di là di qualche passaggio televisivo dei suoi lavori, ci fa riflettere sulla possibilità infinite di rileggere/rivedere la nostra personale storia da ogni diversa angolazione. Il punto di vista sui fatti, concepito come un morbido movimento di macchina o una posizione inusuale rispetto ad un piano inclinato. Con Lattuada se ne va un cinema sincero, fatto di sguardi inquieti e corpi che si fondono alla ricerca di una posizione degna di nota in questa terra. Di un equilibrio che stà tra il cielo della libertà e l’inferno del dovere, della morale. Uno sguardo trepidante ancora una volta, per certi tratti, semi-dimenticato o mai riscoperto.

(Luglio 2005)


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