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Anniversari - Fassbinder: Perchè muore un regista di trentasette anni?

Pubblicato il 10 giugno 2007 da Fabrizio Croce


Anniversari - Fassbinder: Perchè muore un regista di trentasette anni?

Quando il corpo di Rainer Werner Fassbinder venne trovato senza vita nella sua casa di Monaco il 10 giugno del 1982. Aveva compiuto da poco trentasette anni (era nato a Bad Worishofen, in Bavaria, il 31 maggio 1945) e la causa della morte venne accertata in un’overdose di cocaina che, abbinata ad una dose spropositata di sonniferi, aveva prodotto un cocktail micidiale.
La cosa che salta subito agli occhi, confrontando una fine tanto sconsolata e triste con una carriera artistica così ricca e variegata, in grado di misurarsi con tutti i mezzi di comunicazione popolare (Cinema, Teatro, Televisione), pur mantenendo una costante tensione per la ricerca e la sperimentazione all’interno della specificità di ogni linguaggio, è l’assoluta non coincidenza di un’età anagrafica tanto breve con una produzione tanto vasta. Quei trentasette anni andrebbero moltiplicati almeno per il doppio, per contenere la realizzazione di 40 film, 12 commedie teatrali, una trentina di allestimenti per il teatro di commedie proprie e altrui, senza contare i lavori per la televisione, tra i quali il colossale sceneggiato Berlin Alexander Platz dal romanzo di Alfred Doblin; opera che da sola può tranquillamente valere come una carriera dentro la carriera, un viaggio parallello compiuto in una dimensione dove il tempo ha perso completamente la presunzione di oggettività ed è diventato visionaria e delirante focalizzazione interna di un tumulto. Un luogo fatto di carne e di passione, soggetto alle leggi e alle dinamiche stabilite da quel ragazzone bavarese che portava sul suo fisico corpulento, arrogante e vulnerabile al tempo stesso, i segni di una straripante voglia di vivere spinta fino al capo estremo e contrario dell’altro polo: la percezione funerea, materiale, distruttibile dell’esistenza.
Ora, sinceramente, non è molto interessante chiedersi se Fassbinder avesse preannunciato la sua morte nel flusso continuo della sua opera, ma è impossibile non trovare un’analogia tra questa morte reale e la morte cinematografica di Franz ’Fox’ Bieberkopf, il proletario omosessuale de Il diritto del più forte (forse il suo film più politico e pessimista sui meccanismi che regolano i rapporti tra le classi sociali). L’immagine del corpo di quel personaggio (tra l’altro interpretato dal corpo del ’vero’ Fassbinder) steso, addormentato o senza vita sul pavimento della stazione della metropolitana, consumato e poi risputato dalla società borghese, che l’aveva illuso di farlo diventare parte di essa in merito ad una fortuita vincita alla lotteria, più o meno incosciamente non può non riemergere prepotentemente e con violenza davanti agli occhi di chi ha letto come quella morte è avvenuta nella realtà.
È opportuno, proprio per questo, ricordare che, come disse lo stesso Fassbinder durante la conferenza stampa di presentazione del film, Fox in realtà non vuole morire, ma solo dormire e per questo ingerisce dei sonniferi. _ L’accidentalità della morte di un personaggio a cui, a parte la scelta di interpretarlo e l’inclinazione omosessuale, Fassbinder non riconosceva altre somiglianze, non va messa in relazione con la volontarietà suicida che starebbe alla base dell’overdose, ed è più corretto far rientrare quest’idea di ambivalenza delle azioni e dei comportamenti in un quadro più generale del pensiero fassbinderiano sugli esseri umani e sulle motivazioni che li spingono a compiere ogni gesto. Prendiamo la morte più emblematica e significativa non solo del cinema di Fassbinder, ma di tutto il cinema tedesco degli anni settanta: la morte di Maria Braun racchiusa tutto in un gesto. Spegnere la fiamma senza chiudere il gas. Un gesto eseguito con una assoluta padronanza dello spazio e del corpo, con una consapevolezza di ciò che sta avvenendo e di quello che avverrà, con l’amarezza disperata nella voce e l’ambiguità seduttiva dello sguardo. L’archetipo Germania\Donna\Maria Braun sta per far saltare in aria tutti i sogni assoluti di ricostruzione, tutti gli ideali romantici di fedeltà all’ideale dell’Amore (per cui è lecito vendersi, prostituirsi, ricattare, uccidere) e contemporaneamente rimane la sensazione pesante e terrena di una piccola maria braun, che, a causa della propria natura disordinata, pigra e sbadata, dimentica il gas aperto. In fondo Maria Braun, Fox, Petra von Kant, Martha sembrano essere chiusi, intrappolati dentro una strettoia che li proietta da una parte sulla parete di una quotidianeità misera, desolante, anonima, e dall’altra spara i colori, le passioni, delinea sagome di corpi e di volti tedeschi in una misura così sfacciata da potervi identificare il seme generante delle umanità di ogni epoca e nazionalità; individui che trascendono il tempo prima che il tempo torni a presentare il conto. Non vivono la vita, ma l’imitazione della vita.
La discrepanza tra Martha e il suo oppressivo consorte diventa insanabile tragedia quando l’immagine di lui, riflessa nello specchio, si deforma fino alla mostruosità, all’avvento dell’immaginazione della realtà sulla realtà che nel frattempo è continuata a scorrere sul suo assolutamente convenzionale binario paralello. Il marito di Martha è probabilmente un paranoico un pò tiranno, ma non quel vampiro assassino e sadico che vediamo dentro lo sguardo costernato di orrore della moglie. Martha ha volontariamente deciso di viversi il suo melodramma horror, ma Fassbinder ha continuato a mantenere il bipolarismo della percezione, alternando la posizione della mdp, puntata ora dentro gli specchi, ora sugli sguardi di Martha, ora sul vagone del treno spedito sul binario parallelo della realtà. Ancora più sconvolgentemente espressa e compiuta risulta la passione estrema e disperata di Petra von Kant, raffinata e ’acculturata’ esponente dell’alta borghesia, per la proletaria e concreta Karin che sfrutta questa passione come un prodotto da consumare per raggiungere uno scopo, un obiettivo di carriera e di posizione sociale.
Con strabiliante precisione e lucidità, la mdp si muove tra isterismo (di Petra) e calcolo (di Karin), toccando ora le corde dell’immaginario del sublime -’Chiamami, ho un bisogno fottuto di te!’ impreca Petra davanti a un telefono che continua grottescamente a squillare in un piano sequenza neutro di estenuante suspance psicologica ed emotiva - ora gli infimi abissi dell’opportunismo più sfacciato - ’Ti amo!’ - di Karin davanti le promesse di carriera di Petra.
Ma Fassbinder non si limitava a queste analisi comportamentali di personaggi prodotti da diverse forme di prigioni ideologiche o sociali, andando oltre. Si appropriava dell’aspetto disperato e di quello critico e beffardo, traducendo il suo personale disagio, la condizione di intellettuale in grado di comprendere il dolore, l’inappagamento, la frustrazione dei sogni infranti contro i muri delle pareti di piccole case tedesche tutte uguali; case riassumibili nell’immagine dell’appartamento buio e claustrofobico in cui Rainer, non più corpo prestato ad un altro personaggio, ma coincidente nell’identità carnale ed esistenziale, consuma la tragica e pessimistica constatazione della sconfitta sia dello Stato sia dell’Ideologia rivoluzionaria nel rigido inverno del terrorismo tedesco in Germania in autunno.
Quello che ascoltiamo e sentiamo nell’episodio fassbinderiano non è un discernimento sulle ragioni dell’una o dell’altra parte, o sulla situazione politica della Germania intesa come nazione, ma qualcosa di più profondo, viscerale, fisico e di conseguenza più disperato, che ci tocca in quanto esseri umani, prima che come appartenenti a una nazione, una classe sociale, un genere sessuale.
L’appartamento non poteva che essere quell’appartamento, quella prigione di vomito, droga, marchettari rimorchiati per strada, affondi di buio senzo lo spiraglio di una luce. Quegli spiragli Rainer li teneva per quando cercava nell’immagine del melodramma la sublimazione di un’impotenza, di un sogno soffocato.
Ha vissuto il doppio e il doppio del doppio per rompere le catene della mediocrità. Ha infranto tutti gli specchi e chissà verso quali altri territori avrebbe continuato a nutrite e a far maturare la sua visionarietà furibonda. Per ogni picco di luce, una caduta nel buio, con un cuore sempre più pesante, sempre più implorante la libertà del sogno.



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