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Conferenza stampa di The Good Shepherd

Pubblicato il 20 aprile 2007 da Sara Ceracchi


Conferenza stampa di The Good Shepherd

A seguito dell’anteprima romana di The Good Shepherd (t.l. Il Buon pastore), uscito in Italia con il sottotitolo L’Ombra del Potere, Robert De Niro ha presenziato alla con ferenza stampa presso l’Hotel St. Regis di Roma in una gremitissima sala delle conferenze. Delle domande poste in poco più di un’ora, molte ci sono sembrate poco attinenti al film, a De Niro e alla sua attività di attore e regista.Minimamente infastidito, Il nostro ha risposto a tutto, rivelandosi un chiacchierone niente male - anche se a volte poco esaustivo - e glissando, col tatto che da sempre lo contraddistingue nei suoi rapporti con il pubblico e la stampa, su ogni domanda poco inerente al suo lavoro, o volta a indagare anche minimamente il suo privato.
Appena iniziata la discussione Robert De Niro ha spiegato il perché del film, della scelta del periodo da raccontare e dei progetti che dovrebbero seguire The Good Shepherd.

R.D.N. Era da tempo che volevo fare un film sulla CIA e i servizi segreti, e in realtà ero interessato a raccontare un periodo più recente della sua storia. Poi però mi sono imbattuto nella sceneggiatura di Eric Roth, che ho trovato ottima. Mi disse che se avessi fatto The Good Shepherd lui avrebbe poi sceneggiato le storie sulla CIA per altri periodi storici: quello che va dal ’61, dall’impresa della Baia dei Porci, al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, è quello che m’interesserebbe di più raccontare.

Con questo film lei è alla sua seconda regia. Noi la conosciamo e l’amiamo soprattutto come attore: cosa si prova, quali metodi usa per dirigere un cast stellare come quello che abbiamo visto in The Good Shepherd? Come regista può dirci quali sono i suoi metodi, i suoi approcci?

R.D.N. Per quanto mi riguarda bisogna dire che la scelta del casting è qualcosa di estremamente importante: se non hai la persona giusta per un determinato ruolo non riuscirai mai ad ottenere quello che vuoi, io non sarei mai riuscito ad ottenere quello che volevo. Non parliamo di Matt Damon e Angelina Jolie che sono fantastici, ma anche di tutti gli altri: per esempio John Turturro ha perso la mamma proprio in quei giorni, e non sapevo se sarebbe riuscito a interpretare la sua parte. E’ stato un problema perché non riuscivo a immaginare nessun altro che potesse interpretare quel ruolo, ho sperato che riuscisse a superare il dolore. Ho girato praticamente tutte le scene di contorno lasciando fuori le parti che lo riguardavano, per consentirgli di riprendersi, nella speranza che accettasse di interpretare il ruolo come poi ha fatto.Per quanto riguarda la regia, come attore non posso che affermare l’importanza della recitazione, e ho notato spesso come nei loro film i registi che sono a loro volta attori riescono a tirare fuori il meglio dai loro interpreti. Forse perché c’è sintonia, ci si capisce nel fare lo stesso mestiere, si ha un certo tipo di rapporto. Ma questo secondo me vale un po’ per tutte le professioni. Anche Mark Inavir che interpreta il russo interrogato da Turturro..non avrei potuto trovare di meglio per quel ruolo.

Il suo personaggio, la parte che lei si è ritagliato (il Generale Sullivan, N.d.R.) a un certo punto dice ‘la democrazia è il mio debole’.

R.D.N. Il mio personaggio può essere considerato un po’ come la coscienza della pace. Rispetto a personaggi come quello di Matt Damon, più conservatori, egli spera davvero che le cose possano andare in un’altra direzione.

Lei ha dedicato tanti anni alle ricerche sulla CIA nel mondo. Cosa può dire in conclusione? Secondo lei servono queste organizzazioni? E ancora, nel suo primo film, Bronx, e anche qui, c’è un rapporto molto forte tra padre e figlio. So che il film non è autobiografico, ma vorrei sapere cosa l’affascina di questo tema, quello del rapporto padre-figlio.

R.D.N. Quanto alla prima domanda credo che i servizi segreti abbiano certamente un ruolo positivo da svolgere: d’altra parte il più delle volte non si sa quello che fanno, soprattutto non si sa quando hanno avuto successo e hanno evitato l’avverarsi di certi avvenimenti. Si può discutere in continuazione delle volte in cui non hanno fatto il loro dovere adeguatamente e non sono riusciti a cogliere quello che stava per accadere. Ma l’Intelligence va alla ricerca di informazioni nel tentativo di capire se sono attendibili. A volte ci prendono ed evitano cattive cose, a volte invece mancano e vengono additati per i loro errori. Per quanto riguarda il rapporto padri-figli, in Bronx la storia era di Chazz Palminteri, io ho solo messo un po’ del mio; in questo film la storia è di Eric Roth e quello che ho fatto è stato solo cercare di rendere al meglio la parte della vicenda personale, il coinvolgimento di questa famiglia lacerata da quelli che sono gli eventi circostanti. Ho semplicemente collegato la storia personale a quella circostante.

Questo film è pieno di rimandi temporali e storici: quanto ha tenuto presente per questo la lezione di Sergio Leone?

R.D.N: Per quello che riguarda C’era una volta in America di Sergio Leone (film che peraltro non rivedo da molto tempo), io lo incontrai quattro o cinque anni prima che decidessi di accettare il mio ruolo, ed ebbi la sensazione che per lui fosse un progetto importante, che voleva realizzare da anni. Probabilmente è questa una cosa che abbiamo in comune io e lui, per questo film credo ci sia stato lo stesso tipo di sentimento.

Io avrei una curiosità. Premetto che sono molto emozionata di poterla incontrare. Si dice che lei sia refrattario alle interviste: forse preferisce non parlare, non farsi vedere per lasciar parlare i film?

R.D.N. In effetti è proprio così, io credo che di fondo uno faccia il film, e poi debba lasciare che il film parli da solo. Ovviamente come regista la cosa è diversa rispetto all’essere attore, in quanto come regista senza dubbio hai qualcosa da dire, hai qualcosa da dire su tutto. Però spesso non sai se e quanto possa essere importante ciò che hai da dire come attore, anche se sei De Niro, perché la gente in fondo va a vedere il film se lo vuole andare a vedere, non ci va se non ci vuole andare. In più, un film ha una gestazione complessa, passa tra gli amici, c’è un passaparola che spinge a farlo o meno, quindi non so cosa possa dirne di più un attore protagonista. Ovviamente per il regista la situazione è diversa perché conosce tutta l’opera.

Che cosa della CIA, della sua struttura, l’ha ossessionata? Il fatto che esiste un occhio, un orecchio parallelo alla vita normale? Lei si è mai sentito spiato? E poi, lei doveva avere un’enormità di materiale, come si è regolato per le cose da tenere nel film e quelle da lasciare?

R.D.N. C’è che trovo l’argomento estremamente interessante. Ci sono stati altri film, come la serie di James Bond, che parlano di questo argomento, ma si tratta secondo me di pellicole che hanno lasciato un po’ troppe domande prive di risposta, hanno un po’ preteso che il pubblico facesse un atto di fede nei confronti di quello che veniva rappresentato; io invece nel film ho cercato di colmare un pochino quelle lacune, ho cercato di renderlo quanto più realistico possibile: ho cercato di illustrare questo mito della CIA, dove ovviamente ci sono fatti che sono veri e altri che non lo sono. Per esempio la scena in cui Joe Pesci parla con Matt Damon non doveva essere così, doveva esserci una scatola di sigari, che veniva recapitata, tra i quali doveva essercene uno esplosivo o uno avvelenato. Poi ho pensato che questo non funzionasse per il mio film, e ho messo la scena che vedete, in cui Damon conclude l’accordo con Joe per cercare di avvicinarsi a Castro. Il fatto di essere spiato, direi di no, ma in certi Paesi si, ad esempio la prima volta che sono andato in Russia, presumo..mi sono sentito spiato.

Lei ha parlato del mito della CIA e ha detto che vorrebbe fare un film fino all’89 con la caduta del muro, e poi fino ai giorni nostri. Io volevo chiedere a Robert De Niro come americano, cosa pensa dei fallimenti della CIA riguardo all’11 settembre, alla cattura di Bin Laden e al delitto Calipari.

R.D.N. In realtà non saprei. Considero sciagure questi fallimenti della CIA, ma come ha detto qualcuno, in effetti nessuno parla delle cose che vanno bene. Nessuno rende merito alla CIA per le cose che funzionano: quelle sono state situazioni sfortunate. Ora si dice come in realtà gli avvenimenti dell’11 settembre avessero già mandato dei segnali, non solo alla CIA ma anche ad altre agenzie di investigazione segreta, ma nessuno vi prestò orecchio.

Al di là dal fosco racconto di come è nata e si è sviluppata la CIA, mi pare che il film sia anche il ritratto della solitudine di un uomo, un uomo che è sempre disperatamente solo, che non può fidarsi di nessuno e non può donarsi a nessuno. Volevo sapere se anche questo aspetto più umano, privato le è interessato.

R.D.N. Assolutamente sì, era proprio l’aspetto personale che mi interessava. Era poi un elemento fondamentale nella sceneggiatura di Eric Roth. Tutti quelli che hanno letto la sceneggiatura l’hanno trovata molto bella, e io ho scoperto solo dopo averla letta che circolava ormai da un po’ di anni tra le mani di produttori e registi; era una di quelle sceneggiature annoverata nelle riviste di cinema tra i migliori film mai realizzati. E di essa mi piace proprio l’aspetto personale che si ricollega al mondo circostante.

Il film che inizierà a girare a breve è il secondo capitolo della trilogia sulla CIA? E se non è così può dirci di cosa si tratta? Poi, riguardo al film, ho letto in un intervista che lei paragona la struttura gerarchica della CIA a quella della cupola mafiosa. Volevo saperne qualcosa in più.

R.D.N. Sì, la trilogia l’ho pensata ma non ha nulla a che vedere con il film che sto facendo ora, che parla di un produttore di Hollywood, è tratto dal libro di un mio amico, il titolo è What Just Happened, ma io non lo dirigo, sono soltanto attore. Lo dirige Barry Levinson, lo produce la Medusa che poi lo distribuirà in Italia. Quanto all’affermazione sulla mafia, volevo dire che in entrambe le organizzazioni c’è questo elemento della segretezza alla base dei rapporti.

Nel corso del film, quando l’organizzazione si ingrandisce, sembra trasparire una sorta di nostalgia per quella CIA delle origini, fatta di uomini più onesti più puri. E poi volevo una definizione in poche parole di cos’è per lei la CIA.

R.D.N. In effetti sì, ottimo punto questo sollevato, ben colto. L’organizzazione quando è nata, più giovane, più snella, aveva altre caratteristiche rispetto a quelle che vediamo oggi. Però ripeto, sono molti i successi della CIA di cui non si sa niente: poi c’è anche il fatto che oggi l’organizzazione sia un po’ nell’occhio del ciclone, così come lo è il nostro Paese nella situazione in cui ci troviamo oggi, tutte le luci sono puntate su di noi. La CIA in fondo si prende anche colpe non sue. Quanto alla definizione non posso assolutamente darla, posso dire che è un’agenzia di servizi segreti.

L’ha emozionata l’Oscar a Morricone? Poi lunedì sera (16-4-2007, N.d.R) ci sarà Michael Cimino a Roma. Pensa di aver fatto con lui il suo film migliore, Il Cacciatore?

R.D.N. E’ qui per una lezione di cinema? Non sta promuovendo nessun film, no? … Considero Il Cacciatore un film molto bello, fantastico, sono orgoglioso di avervi partecipato. Per quel che riguarda Morricone, sì, mi ha fatto molto piacere perché trovo sia un compositore straordinario. Io ho recitato in quattro, cinque film di cui lui ha composto la colonna sonora.

In Italia è in corso un dibattito su cosa fanno i servizi segreti, perché l’Italia è un Paese democratico e deve sapere cosa accade. Il dibattito è legato al recente caso della liberazione di un giornalista italiano in Afghanistan in cambio di ostaggi, volevo sapere la sua posizione. Anche l’America è un Paese democratico, ma secondo lei vi ha raccontato tutto o no? E un’altra cosa, lei parla molto nel film di Skull and Bones, questa organizzazione che viene definita segreta, ma tanto segreta non dev’essere se abbiamo l’elenco dei membri che ne hanno fatto parte, molti dei quali sono oggi degli uomini politici (George Bush e figlio, John Kerry e altri, N.d.R). Vorrei sapere di più su questa confraternita, di cui so molto poco.

R.D.N. Skull and Bones: all’epoca sicuramente questa confraternita era molto più segreta di quanto non lo sia oggi. Io per esempio ho incontrato suoi membri che mi hanno detto ‘io in teoria non dovrei dirti che sono membro di Skull and Bones ma lo sono’. Poi fondamentalmente quello che si vede è dovuto a Eric Roth che ha proprio effettuato delle ricerche sulla storia e sul mito di questa società segreta. Quello che io ho cercato di fare è presentare determinate cose al pubblico, lasciandogli interpretare ciò che vede. Mi auguro di esserci riuscito senza farlo in maniera sciocca. Se questa sia la metafora poi di altre cose fatte da Skull and Bones, questo non lo so. Per quanto riguarda il fatto di svelare tutta la verità o meno, considerando che si tratta di una democrazia, quello che ad esempio dice Matt Damon anche in contrapposizione al mio personaggio, a un certo punto del film, è che bisognerebbe in realtà dire tutto: ma poi la linea è sottile tra il dire tutto o solo determinate cose per interesse nazionale. A volte non sai se certe cose vengono fatte davvero per interesse nazionale, o se magari questa cosa dell’interesse nazionale è usata per nascondere altre verità che non vengono svelate e invece dovrebbero esserlo.

Poi è stata la volta di Enrico Lucci de Le Iene, che ha pregato Robert De Niro di venire a fare un film da noi sui misteri italiani, strappandogli qualcuno dei suoi celeberrimi buffi sorrisi, soprattutto con la storia di Vallettopoli e Calciopoli. Nessuno spazio per una nostra domanda, ce n’erano tante in coda rimaste insoddisfatte: dopo il siparietto con Lucci, De Niro è sparito alla velocità della luce tra i tendaggi alle sue spalle, insieme alla traduttrice e ai torvi bodyguards, che con sguardo minaccioso ci intimavano di non tentare nemmeno di oltrepassare il sipario. Che fossero della CIA?


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