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Conferenza stampa: Raymond Depardon

Pubblicato il 18 settembre 2002 da Alessandro Borri


Conferenza stampa: Raymond Depardon

Venezia. Il deserto ritorna il molti suoi lavori. Quali sono le difficoltà e quale il piacere nel filmarlo?

Filmare il deserto è difficile. Si è sempre delusi dalle immagini del deserto: il deserto è più grande delle immagini, più grande delle fotografie o dello schermo su cui è proiettato un film. Sono stato per la prima volta nel deserto nel 1960, e da allora ho sempre cercato occasioni per tornarci. Ho ripreso il deserto in qualità di fotografo, di reporter impegnato, di documentarista e di cineasta. Il deserto è come una religione e lì uno conduce una vita che ha molto dell’esistenza monastica.

Lei è anche un grande fotografo. Quanto ha contato nel girare il film? E che cosa pensa, in quanto fotografo, del fatto che il digitale sta prendendo sempre più piede?

Sì, è vero l’aspetto fotografico ha contato molto nel film. D’altra parte mi sento molto vicino a registi quali Flaherty, Murnau e Rossellini. Ho utilizzato una macchina da presa degli anni ’40, un apparecchio solido che mi ha permesso di girare nel deserto. Questo andare indietro nel tempo era in sintonia con un voler ritrovare ciò è essenziale, primario, e mi permetteva anche di sentirmi più vicino a coloro che filmavo. Per quanto riguarda il digitale, devo dire che continuo a essere per la fotografia in nitrato d’argento, ho fatto la mia scelta anche se mi rendo conto che il digitale darà un apporto notevole.

Quali sono state le condizioni delle riprese?

La fase delle riprese è stata difficile. Gli abitanti del deserto continuano a vivere come nel XIX secolo e inoltre c’era il vento. L’Harmattan è un vento che viene dal Mediterraneo, dall’Egitto, e va verso il Mali, ogni anno, all’inizio dell’anno. L’ho conosciuto 25 anni fa, e ne ho sofferto molto. Sono voluto tornare per filmarlo. In quei luoghi, si tratta del deserto sotto il Tibesti, tra la Mauritania e il Ciad, alcuni anni fa è stato ritrovato un cranio umano, una delle più antiche vestigia dell’uomo. L’equipe era composta solo da quattro occidentali (oltre a me, dal tecnico del suono, l’aiuto regista e l’operatore). Io ho sempre un po’ paura della finzione, vengo dalla realtà, ho paura di quello che è bidon, come si dice in francese, falso, della ricostruzione, della messa in scena. La presenza effettiva del vento ha facilitato molto le cose. Soprattutto per quanto riguarda gli interpreti. Non volevo che scimmiottassero delle situazioni. Loro in realtà non hanno troppo ben chiaro cos’è il cinema. Con loro avevo due possibilità: dirgli in modo esatto quello che dovevano fare, e loro l’avrebbero fatto gentilmente, ma in modo un po’ rigido, poco naturale, oppure dargli delle indicazioni molto generali e lasciarli liberi. Così ho fatto. D’altra parte è cambiato molto poco rispetto al 1930. Oggi ci sono gli orologi, le t-shirt, gli occhiali, le scarpe da ginnastica, ma per il resto tutto è rimasto uguale nel deserto.

Nomadi e cacciatori.

Nel libro di Brosset la parte dedicata alla caccia non è molto importante. Ma quando ho incontrato l’attore che interpreta Alifa, ho avuto la fortuna che fosse un cacciatore. Alifa impara tutto dai cacciatori, in primo luogo come orientarsi nel deserto. E’ straordinario come questi uomini sappiano muoversi nel deserto, dove si è circondati da un orizzonte identico su 360°. I cacciatori presenti nel film erano molto diversi dai nomadi. Questi ultimi hanno un fare più aristocratico e distaccato, mentre i cacciatori sono più disponibili, volenterosi, si offrivano di aiutarci. Io penso che l’Africa possa rappresentare l’avvenire dell’uomo, oltre che la sua origine. I Tibù possono vantare 25 secoli di presenza sul medesimo territorio. Si tratta di un territorio difficile e poco conosciuto, più sconosciuto dell’Artide e dell’Antartide.

[4 settembre 2002]


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