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Conferenza stampa: Stefano Rulli

Pubblicato il 10 novembre 2004 da Mazzino Montinari


Conferenza stampa: Stefano Rulli

Sulmona. “Questo è un piccolo film, una specie di diario, che ho realizzato nel corso di due anni nei ritagli di tempo quando non lavoravo come sceneggiatore”. A parlare è Stefano Rulli, per una volta regista di un documentario, Un silenzio particolare, presentato a Venezia e vincitore al festival di Sulmona. Dopo la proiezione nella cittadina abruzzese, Rulli ha dialogato con il pubblico, spiegando i motivi che lo hanno portato riprendere una realtà piuttosto che a scriverla o adattarla come normalmente accade nel suo lavoro di sceneggiatore.

Come è nato Un silenzio particolare?

L’idea di questo film mi è venuta dall’esigenza di filmare e promuovere l’esperienza della Città del Sole, una fondazione con dei casali nella campagna umbra. E’ un agriturismo aperto a tutti, in particolar modo a quelle persone che soffrono di disturbi mentali. Quando ho iniziato a girare, Matteo era lì con me e a un certo punto ha cominciato a entrare in campo, interrompendomi continuamente. E’ stato l’operatore a suggerirmi che forse Matteo voleva apparire nel documentario e allora abbiamo cominciato a fare delle cose insieme, la domenica o quando arrivavano dei gruppi, come quello che si vede nel film. Dopo due anni ho iniziato a rivedere tutto il materiale per trovare un filo narrativo e per dare un senso compiuto al documentario. Mentre montavo mi accorgevo che mancava qualcosa e riprendevo a girare. In tutto ci sono voluti tre anni di lavoro.

Per dare il maggior senso della realtà hai usato qualche videocamera nascosta?

No, anche perché la troupe era composta da me e un direttore della fotografia, amico di vecchia data, e tutto ciò non costituiva un elemento di disturbo per Matteo. La telecamera è stata vista come un gioco per relazionarsi con noi, non come qualcosa di esterno. Non abbiamo usato nemmeno luci artificiali. Volevamo raccontare con estrema naturalezza questa realtà dall’interno. Questo è anche il motivo per cui ho deciso di tornare eccezionalmente alla regia dopo Matti da slegare. Non è stato un atto di presunzione. Questa storia la potevo realizzare solo io. E anche se altri registi avrebbero potuto fare di meglio, io possedevo quella forte motivazione che serve proprio per realizzare un film.

Come ha reagito Matteo al film?

Finito il montaggio, io, Clara e Matteo lo abbiamo visto insieme davanti alla televisione. Lui normalmente non vede mai più di cinque minuti di seguito di un film. Non siamo mai andati a cinema. In questa situazione, la cosa che mi ha colpito non è stata tanto il fatto che gli sia piaciuto, quanto che a un certo punto ha chiesto di rivedere alcune scene, quelle nelle quali piange. Per la prima volta si è visto da fuori e ha cominciato a pormi delle domande. Abbiamo parlato e per me come per lui è stata un’esperienza importante.

Quali finalità ti sei posto rispetto a un pubblico che determinate situazioni le conosce poco?

Quando si fa cinema si deve cercare di offrire un nuovo sguardo su una realtà e non limitarsi a dare delle informazioni. Questo piccolo film offre, appunto, uno sguardo su una realtà che la maggior parte delle volte è oggetto di vere e proprie fantasie perché non la si conosce bene. Si pensa a un mondo cupo ma non è così. E dunque volevo trasmettere una sensazione di vita. Certo c’è il dolore, ma Matteo e gli altri ragazzi comunicano energia. Con loro si ride e si scherza. E’ la vita di tutti i giorni fatta di gioie e tristezze. Ed è giusto raccontare tutto questo, compresi gli errori che un padre può commettere.

Il tuo documentario sembra inserirsi in un contesto fortunato. Che ne pensi dell’improvviso interesse per questo tipo di film?

La forma romanzo sta mostrando la corda rispetto al problema di un racconto autentico. Lo dico soprattutto in qualità di sceneggiatore che prova quotidianamente la difficoltà di penetrare la realtà con sguardo autentico. Credo che i documentari oggi permettano di riprendere possesso della realtà, in tutta la sua vitalità e contraddittorietà. Probabilmente se avessi dovuto sceneggiare il mio film, avrei scritto un’altra cosa, molto diversa.

Vi sono delle analogie tra il tuo film e quello che hai sceneggiato con Sandro Petraglia, Le chiavi di casa?

Le chiavi di casa è un’esperienza del tutto diversa. Ho dato un piccolo contributo sulla base della mia esperienza ma va anche detto che non credo di essere uno specialista cinematografico dell’handicap. E poi questo è il film di Gianni Amelio, un regista che ha voluto raccontare il dolore del mondo e al tempo stesso la speranza. Una storia che riguarda tutti noi e non semplicemente un padre di famiglia.

[novembre 2004]


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