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Da Big Whiskey a Iwo Jima: Cronaca di un mito spezzato

Pubblicato il 19 febbraio 2007 da Valentina Casadei


Da Big Whiskey a Iwo Jima: Cronaca di un mito spezzato

L’America e i suoi sogni, l’America e i suoi eroi: il cinema americano è nato, è cresciuto e si è sviluppato all’insegna dell’esaltazione della nascita di una nazione che si voleva esemplare, che si voleva scelta per via di un manifest destiny che nessuno avrebbe potuto ignorare.
La giovane nazione modello di democrazia, libertà ed economia si è costruita negli anni una base solida grazie a cui avanzare pretese e presunti diritti e se l’è costruita rileggendo la sua storia sotto una luce mitica, rendendola una parabola di evoluzione splendente secondo cui gli eroi americani, i tanti Wyatt Earp a spasso per la frontiera, a ogni loro passo verso l’ovest riuscivano a tramutare il deserto e la wilderness in un biblico giardino delle meraviglie. Il male era sconfitto, il bene trionfava nella fondazione di comunità ridenti. La storia sposa il mito e la reatà riposa nascosta dalla leggenda. ’When the legend becomes fact, print the legend’ dice il giornalista, dopo che il senatore Stoddard-James Stewart ha terminato il suo racconto revisionista ne L’uomo che uccise Liberty Valance. La verità non ha valore, quel che conta è l’ideale: che esso nasca dalla leggenda, che esso sia pura invenzione, non importa.

E’ il 1992 quando Clint Eastwood, ritornando sulla strada per l’Ovest, più volte calpestata, gira quello che ha definito ’l’ultimo western’, non in semplice senso cronologico, ma alludendo alla rilettura sempre più crepuscolare del Mito e del genere americano per eccellenza che il film porta in atto: nelle sale del mondo appare Gli Spietati. Nei suoi toni disincantati, nelle sue ombre abilmente esibite, Gli Spietati porta la traccia di tante riletture, di tante altre intense revisioni sul mito e sulla storia americana che lo hanno preceduto, collocandosi nel mezzo di un cammino già percorso da più uomini audaci e straordinari: Peckinpah docet e Eastwood ascolta.
Il risultato è un film che rinnega la storia raccontata da sempre, che rinnega il classico trionfo dell’eroe buono e pio, che rinnega l’esistenza di una morale ordinatrice e che non sa che farsene di una leggenda rassicurante. Clint Eastwood ripercorre il mito del West per smantellarlo, ribaltarlo, rinnegarlo. Quel West a cui l’America si era aggrappata, in cerca di una gloriosa giustificazione, quella frontiera sempre nuova che sola poteva rigenerare una nazione senza radici, qui diventa un territorio ambiguo, insidioso e non più impregnato di quel fascino delle tante dime novels che hanno aperto la strada al racconto mitopoietico sulla conquista del deserto insidioso.
Bazin descrivendo questo fenomeno ha paragonato gli eroi del Western a cavalieri erranti, novelli Ulisse o cavalieri da Chanson de Geste. Nella storia riscritta da Eastwood le cose cambiano, e di molto.
Uomini soli, uomini che non sanno più sparare o salire a cavallo, caduti tra il fango di un porcile, che condannano alla morte in latrine fetide e deserti silenziosi: questi i pistoleri in viaggio verso Big Whiskey, pistoleri che riconoscono eppur non possono evitare il male. E’ questo il marchio della poetica nuova di Clint, è questo il segno su cui si sviluppa il cinema di Clint: svestiti i panni dell’Ispettore Callaghan, l’ex sindaco repubblicano di Carmel si getta a capofitto in una complessa riscrittura del sogno americano e dei suoi eroi. Non esiste un uomo perfetto e più semplicemente non esistono eroi. A Big Whiskey c’è una taglia contro due giovani sfregiatori di prostitute e Bob l’Inglese (Richard Harris) arriva dall’Est pronto ad intascarla. Con lui c’è il suo biografo, uno dei tanti scrittoruncoli ingaggiati per tramandare le gesta eroiche degli uomini del West. Ma non c’è verità nelle sue storie: le gesta eroiche sono meravigliosi ricami su tovaglie logore che nascondono inettitudine, vizi e debolezze del pistolero più temuto del West. Quando la leggenda supera la realtà…la storia si popola di bugie.
Bugie: questa è la materia di cui i sogni sono fatti. Bugie come quelle raccontate dai vertici di stato (Potere assoluto) o da uomini potenti e onnipotenti (Mezzanotte del giardino del bene e del male). Bugie che tentano di camuffare un passato malato, un passato che non si può cancellare e che ci portiamo dietro tutti (Mystic River), seppur spesso lo vogliamo ignorare. Bugie su cui si fonda il mito in genere, il mito su cui ci possiamo appoggiare, il mito su cui crediamo di poter contare: ma poi scopriamo quello che in fondo avevamo sempre saputo, che niente è come avevamo creduto e che a volte dietro un’ immagine-icona di coraggio e di forza, un’immagine capace di risvegliare una nazione, non si nasconde che paura e morte (Flags of our fathers). Scopriamo di colpo che dietro agli eroi che avevamo osannato non c’erano altro che uomini soli, uomini in balia della vita, che viene e va e ci atterrisce. ’Non ci sono meriti in queste storie’ dice William Munny-Clint Eastwood - sempre ne Gli Spietati- ad un ormai spacciato Little Bill-Gene Hackman. Non ci sono meriti e non ci sono eroi. Ci sono uomini che vivono e hanno vissuto.

Su una spiaggia dell’isola nera di Iwo Jima i soldati si spogliano dei loro abiti, si spogliano dei loro ruoli: si gettano nell’acqua felici e assenti per un istante dalla violenza e dal mondo. Ridono. Noi li guardiamo e li vediamo vivere, consapevoli del loro destino, consapevoli della loro prossima scomparsa. E’ un’immagine forte ed intensa e richiama un’immagine altrettanto forte e bella: dopo il massacro di Agua Verde, Peckinpah ne Il mucchio selvaggio ci aveva fatto vedere i suoi anti-eroi ridere e vivere ancora, post-mortem. ’Per ricordare allo spettatore che anche loro hanno vissuto, per ricordare che anche loro erano uomini’ disse Peckinpah. Così Clint mette di fronte a noi un’ umanità multiforme ma viva, non per giudicarla ma semplicemente per capirla. Tra le sfumature di bianco e nero si perde per sempre quella visione manichea degli eventi, secondo cui esiste o il bene o il male, il giusto e l’ingiusto. Ma per Eastwood la vittima può essere a sua volta carnefice: il classicismo manicheo non fa per lui. Il mondo perfetto non esiste.

Nel 1993, proprio con Un mondo perfetto, Clint aveva tratteggiato i contorni di una società confusa, dai valori incerti, in cui spesso giustizia e legge non coincidono e in cui i sogni non possono essere davvero vissuti. La società per Eastwood non è più un porto franco alla cui integrazione l’uomo deve aspirare: già ne Lo straniero senza nome, sulla scia di Mezzogiorno di fuoco, ne aveva sbeffeggiato la codarda ipocrisia. Ma la tensione nei confronti della società in genere, società americana nello specifico, si acuisce col tempo e negli anni essa si esprime con toni forti e critici. Will Munny-Eastwood dopo aver compiuto il massacro finale parte da Big Whiskey e le didascalie che scorrono ci informano di come abbia fatto rotta verso la California e si sia dato con successo al commercio. Assassino impunito, egli ora è parte integrante della capitalistica società nascente, e come lui tanti e tanti altri, ex killer in giacca e cravatta quotati a Wall Street.
Cosa vuole dire Eastwood? Forse che esiste anche questa verità storica dimenticata, o che cerchiamo di dimenticare: alla base della fortuna di una nazione c’è sangue e morte e furia omicida. Forse che il sogno americano sia solo utopia, che il sogno americano sia marcio dentro? Il sogno americano è talento ed arte stroncati dalla Grande depressione e la tubercolosi (Honkytonk man) o che imbocca la strada della follia (Bird); il sogno americano del self-made man è una ragazza povera e determinata che muore sola o quasi, abbandonata da una famiglia perversa, per colpa di una ragazza violenta e impunita, perché lo show-business vale più della giustizia (Million dollar baby). Il sogno americano è un uomo solo al confine, quell’uomo che Clint ha spesso interpretato: è uno straniero disadattato che parte e abbandona la vita, o ne rimane escluso senza volerlo (Million Dollar Baby e Fino a prova contraria, solo per citarne alcuni).

E la Storia allora muta pelle, la Storia si riscrive: se l’eroe non è mai esistito, se la società non è più la comunità danzante dei film di Ford, se tutto è messo in dubbio, il mito e il racconto dello storico sono destinati a imboccare strade diverse, le strade del dubbio e della verità da cercare. Nel 1983 Frederick Jackson Turner, parlando della storia della sua America, descrisse l’importanza del concetto di frontiera da cui gli Stati Uniti erano nati. Una frontiera mobile la cui conquista assicura la rigenerazione, l’equilibrio sociale e permette all’uomo di sognare un futuro nuovo. Nel Novecento la frontiera ha cambiato faccia e continente: la frontiera americana non si può chiudere e se la terra americana finisce, non finisce comunque l’espansione del potere degli USA. La nuova frontiera è l’Europa, il Vietnam, il mondo intero. L’America si forma col tempo una sua storia. Ora il west non è il solo mito su cui l’America costruisce la sua identità. Alla guerra di secessione si affianca la guerra mondiale.
Riflettere sul passato aiuta a capire il presente: prima il passato era il West ora il passato è anche il conflitto mondiale o il Vietnam. La frontiera si è spostata, ma non è morta. Il western è camuffato, ma non è sparito. L’America nasce sulla frontiera: fino a quando ci sarà America, ci sarà frontiera. E il western non sarà mai inattuale: in fondo il dittico su Iwo Jima di Clint è ancora un western, è ancora un film sull’identità americana. Da Big Whiskey a Iwo Jima la strada non si è interrotta. Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima: è la Storia che parla. Ma è una Storia il cui narratore non è portavoce di certezze e non sa assegnare la giustizia ad una parte o all’altra. E’ una Storia in cui esistono ombre che sono le ombre dell’umanità tutta.
Quando realizzò Il texano dagli occhi di ghiaccio Eastwood presentò al mondo la favola bella di un sudista che, senza problemi, si creava una sbilenca piccola comunità fatta di due donne antitexane e due indiani. Era l’icona dei punti di vista che si incontrano e possono dialogare ed un esempio lampante di come oltre a quello che si racconta e si è sempre raccontato, possa esserci dell’altro. Dietro al Mito ci sono gli uomini, e ogni uomo ha la sua storia. Mostrare questa storia in chiave nuova: questo l’obiettivo dell’ultimo Eastwood. Così in Letters from Iwo Jima sono i nipponici a parlarci della guerra. Il punto di vista del “nemico” è riabilitato. Eastwood ci mostra il modus vivendi di un mondo lontano, non per denigrare una parte o l’altra ma per parlare ancora una volta al cuore, per parlare di uomini, americani o giapponesi che siano. Per raccontare una storia fatta di persone, seppur diverse e distanti, e non di bibliche icone del bene o del male. Per ricordarci dell’atrocità di una guerra e di una violenza che non può essere giusta, che è riprovevole prevaricazione dei diritti altrui perché in fondo la morale della favola è sempre quella che annunciava il vecchio William Munny in un momento di lirica lucidità , perché ’è una cosa grossa uccidere un uomo, gli levi tutto quel che ha e tutto ciò che sperava di avere’.


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