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DI TAROCCHI E ALTRE SUPPOSTE

Pubblicato il 18 gennaio 2004 da Antonio Pezzuto


DI TAROCCHI E ALTRE SUPPOSTE

Chissà se sarebbe ugualmente divertente vedere la disputa Bonolis vs. Ricci, non solo dal ricco lato dell’utente, ma anche da quello, forse non altrettanto divertente ma certamente più ambito, dell’addetto ai lavori. Dal lato, cioè, di chi capisce i veri interessi in gioco, il sottobosco, le conseguenze ed i significati. Di chi non si limita a fare allegra dietrologia e a prendere parte come se si trattasse di una disputa calcistica. A quelli, in pratica, a cui è stato tolto il gusto voyeuristico del “vedere per vedere” e non sobbalza più leggendo l’intervista di Luca Laurenti contro l’ex amico. In poche parole: di chi sa. E quanti saranno in Italia e nel mondo quelli che sanno veramente? Maltese come va considerato? E Socci e Funari, e Grasso e Dipollina? E la Aspesi o la Rangeri? E pesa come un macigno il silenzio della Fallaci o ce lo dovevamo aspettare? O per capire qualcosa dovremmo chiedere a Timperi, Crozza, Grillo e Magalli, o a Vita, Vito, Rutelli e Pomicino, a Morucci e alla Faranda, a Moratti (intesi come presidenti, comici o ministri), o forse sarebbe il caso di analizzare Blob, e magari interrogare sul punto le veline, Floriana o il prete cassato da Confalonieri in persona dal grande fratello edizione 2004. In ogni caso non so quanto tutto questo ci potrebbe portare. Perché questa è stata, per chi utente medio è, uno squarcio (presunto, ovviamente) sulla casa della vicina che aveva lasciato (distrattamente?) le tende della stanza da letto aperte. Abbiamo capito che noi, “la ggente” potevamo capire tutto, che tutto ci era sotto gli occhi. E ci si è subito armati di binocoli virtuali, leggendo gli articoli sui giornali, guardando le trasmissioni che direttamente o indirettamente in questa disputa sono entrate, surfando tra i siti gossippari, e non per capire meglio, perché tutto quello che c’era da capire lo avevamo già capito, ma solo per vedere le reazioni di chi si è reso conto di essere stato guardato, e vedere di nascosto l’effetto che fa. Perché non è fondamentale capire se le trasmissioni erano taroccate, se il Loppa aveva veramente raccontato le cose che ha raccontato, se a Leo Rutigliano un signore gli ha detto che era un ladro (ma come avrà fatto un vecchietto romano a riconoscere un concorrente di un quiz che sarebbe dovuto essere, secondo logica comune, in quel momento in altri luoghi ... e ci viene compassione per i sosia dei concorrenti, facce anonime, appunto, e come tali iper presenti nelle strade di ogni luogo). Come non è fondamentale credere agli inciuci della De Filippi, ai concorrenti di Sarabanda, agli incontri della Carrà o alle storie vere della D’Eusanio: per noi che andiamo al cinema il mockumentary è pane quotidiano. Qui la situazione è differente, è più importante ... ci sono i soldi in gioco. I soldi del premio, i soldi della pubblicità che in prime time un punto o meno di share può garantire. E qui non si scherza. Si toccano i soli valori condivisi al di là del sesso, la religione o la razza (se di sesso, religione o razza ha ancora senso parlare). I soldi, quindi, non lo “speculare sul dolore della gente che credetemi è la cosa peggiore che si possa dire ad un uomo” (???), non la vecchina che va tutelata dalla medium che parla con i morti, e che certo è importante (la vecchina, non la medium ... ché se si è Padre Pio le stimmate sono segno di santità, ma se si fa il mago a Manfredonia sono segno di esecrabile credenza popolare) e va tutelata anche se non credo che “la vecchina che crede ai fantasmi” sia il pubblico ideale per le pubblicità di assorbenti ultraleggeri, macchine da invidiare e carta igienica che corre per i verdi prati del futuro (e parlo sempre come semplice utente, poi magari gli analisti della pubblicità pensano cose molto più raffinate e complesse a proposito). Ma dicono che è tutta questione di soldi. Di soldi “veri”, quelli che tutti noi speriamo di guadagnare nel modo più nobile, non con lavoro e fatica che fa troppo calvinista ginevrino, ma con la lotteria, il gratta e vinci o il portafoglio rinvenuto per strada e poi, una volta svuotato, riposto con cura nella cassetta delle lettere in modo che almeno i documenti ritornino al legittimo proprietario (che fa molto più cattolico e magari si merita un semplice “Ave Maria” dal nostro psicologo o prete di fiducia). Nella disputa Bonolis vs. Ricci, abbiamo potuto usare gli occhi, e li abbiamo usati per guardare. Cosa che sembra banale, ma che forse così banale non lo è, visto che persone che sanno, e che molto più importanti di noi sono, si fanno operare agli occhi non per vedere meglio, ma per farsi vedere meglio (in un delirante cortocircuito metavisivo che meriterebbe ben più di un cenno fuggevole). Ed abbiamo capito tante cose: che chi va in televisione ci va perché ha voglia di apparire, che se dico “ti parlo per dieci minuti” e poi parlo per trenta sono un bugiardo e merito un naso pinocchiesco, che se trasmetto le interviste della gente normale (quella che non sa) poi col montaggio posso fare quello che voglio (e chissà se Fede sarà rabbrividito a vedere svelati i suoi piccoli trucchi), che se facciamo una comparsata in un film diventiamo attori (o mezz’attori che fa più spregiativo), che “possiamo credere a quello che vogliamo ma la realtà è questa”, che Bonolis è capace di citare Totò (con le supposte) e Godard (con l’interazione tra immagini, suono e testo) con taglio alla Perry Mason, che le parole sono importanti e che esiste la televisione scritta, quella non scritta, e quella guardata, da noi, che la usiamo come “tempo installato”, sulla parete, sopra un mobiletto o tra le mensole, e che non vogliamo né vincere, né apparire, e, soprattutto, non trasformarci in un calvinista svizzero.

[gennaio 2004]


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