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Festa del Cinema di Roma 2007 - La Recta Provincia - Fuori Concorso

Pubblicato il 19 ottobre 2007 da Alessia Spagnoli


Festa del Cinema di Roma 2007 - La Recta Provincia - Fuori Concorso

“Un giorno che Dio era scontento, si mise sulle braccia e fece il mondo al contrario”. Un’immagine plastica, che si impone prepotentemente, da subito, nell’immaginario spettatoriale: quella di un dio terribilmente umano, cui fa da immediato contraltare la profusione di uomini-diavoli che sfilano nel film, presentati – per loro stessa ammissione – come frutto dei protratti cattivi pensieri delle persone. Incastonato tra l’immensità del cielo e il profilo aspro dei monti, il personalissimo Cile di Ruiz appare come un territorio al confine tra i mondi, in cui alla gente non resta che oscillare tra il credere incondizionatamente all’esistenza del divino o il cedere ai desideri più terreni e carnali: ed è un Cile arcano, quello dell’entroterra poco esplorato dal cinema, quasi un Paese (e un paesaggio) lunare. Visti da quel narratore extraterrestre che è, per l’appunto, il cileno-apolide Raoul Ruiz, un veterano della settima arte che ormai veleggia verso la centesima pellicola diretta e che viene quest’anno omaggiato dal Premio alla Carriera di FilmCritica.
Il maestro cileno torna a pretendere dal suo pubblico un’assoluta dedizione al narrato, ripagandolo però, ampiamente, nell’istante esatto in cui ci si lascia catturare dalle sue folgoranti intuizioni visive. “Ecco la mia personale teoria in forma di fiction: in quel sogno a occhi aperti in cui consiste la visione di un film, c’è una contropartita, siamo noi che cominciamo a proiettare un altro film sul film che scorre sullo schermo. Sottolineo il verbo proiettare. Perché si tratta di immagini che provengono da noi e che si sovrappongono a quelle del film”. Si tratta di una cristallina dichiarazione poetica resa dall’autore stesso, presente in quarta di copertina del volume Ruiz Faber edito da Minimum Fax e che ci pare si incolli perfettamente a quest’ultima “opera in forma di sogno” del cineasta. La notevole qualità onirica della pellicola è, difatti, il tratto saliente dell’approccio dell’autore rispetto al materiale, di segno, all’opposto, prettamente etno-antropologico di partenza: da tale cortocircuito tra contenuto e forma, scaturiscono interpretazioni mai piattamente univoche o già contrassegnate pesantemente dallo sguardo del regista, ma sempre foriere di ulteriori voli pindarici da parte del depositario dell’operazione di decriptazione dell’immagine.
Le singole sequenze vengono amorevolmente dedicate ad una teoria di racconti, di diverso taglio e genere, ma tutti appartenenti alla tradizione orale e popolare della sua gente: parabole cristiane che si intersecano alla narrazione di sogni, quando non al racconto di leggende popolari ecc... Ciascuno, modulandosi sull’altro, dona la cadenza alla pellicola: ed è un ritmo lento, ipnotico, alogico, come avviene, appunto, per i sogni.
La principale di queste vicende riguarda un’anziana madre, creativa artefice di bandiere e suo figlio, uno stolto che nel suo girovagare privo di senso scova un certo giorno osso umano e soffiando nei fori misteriosamente praticati in esso da qualcuno, trae suoni celestiali. Un’altrettanto ignota voce gli comanda di recuperare le restanti ossa disperse lungo il Paese e appartenenti alla stessa persona, e per esaudire tale desiderio (ma si tratta, altresì, di un preciso dettame cristiano, quello di donare degna sepoltura alle persone), lo stolto e la madre si incamminano in un viaggio spossante e rischioso.
Come quella melodia, prodotta utilizzando “ad arte” le sette note musicali, così tutto il male che v’è nel mondo sarebbe l’esito della combinazione dei sette peccati capitali, di cui parla la religione cristiana.
Il sessantaseienne Ruiz verga da par suo, quello che in definitiva si direbbe l’incubo ad occhi aperti di un “vecchio” spaventato dal mondo e dai pericolosi “demonietti” che lo abitano e in cui si rischia ad ogni passo di imbattersi. La sua funerea allegoria, in cui al posto di un unico diavolo, millenario spauracchio degli uomini, sfilano diversi spiritelli maligni, che non si discostano poi molto né all’apparenza, né nel contegno, dall’agire umano, rappresenta un lascito che continua, nelle due ore di proiezione (ed oltre) ad agire in profondità, turbando non poco. Insomma: quello di Ruiz sarà pure un "mondo al contrario", eppure vi si respira un’aria tetramente familiare.


CAST & CREDITS

(La recta provincia) Regia: Raoul Ruiz; sceneggiatura: Raoul Ruiz; fotografia: Inti Briones; montaggio: Valeria Sarmiento, Béatrice Clerico; interpreti: Bélgica Castro (Rosalía), Ignacio Agüero (Paulino), Hernán Vallejos (l’impiegato); musiche: Angel Parra; costumi: Lola Cabezas; produzione: Margo Films – 19, rue des Gobelins 75013 Paris – France, RR Producciones, TVN; origine: Cile, Francia, 2007 durata: 120’


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