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Il rosso e il blu (Conferenza stampa)

Pubblicato il 18 settembre 2012 da Alessandro Izzi


Il rosso e il blu (Conferenza stampa)

Roma, 17 settembre 2012. Vivace, colorata, allegra, la conferenza stampa di Il rosso e il blu che ha visto protagonisti, oltre a regista, sceneggiatrice, produttore, distributore e attori principali, anche l’intero cast di ragazzi. In sala c’erano anche alcuni studenti di una scuola romana per un film che, in fondo, si rivolgerà prima di tutto proprio al mondo degli studenti anche se lo sguardo della pellicola sembra essere più rivolto alla realtà dei professori.

Fare oggi un film sulla scuola non è cosa facile, tanto meno mettere l’argomento istruzione al centro del dibattito culturale. La sua è una scelta che non possiamo non definire politica...

Giuseppe Piccioni: Non ho questa consapevolezza né questa intenzione. Il film non vuole essere un trattato sullo stato attuale della scuola italiana. Certo si finisce per parlare anche di questo, ma per me la scuola è prima di tutto l’ambiente in cui si incrociano destini, aspettative, disillusioni di adulti e giovani, un crocevia tra l’esistenza degli adulti e i progetti degli adolescenti. E quando mi sono imbattuto nel bel libro di Lodoli mi è sembrato che la scuola avesse ancora bisogno di essere raccontata, ma che avesse bisogno di essere raccontata nella sua “normalità” con disagi normali, senza estremizzazioni. Sarebbe stato facile raccontare della ragazza che si prostituisce o dello spaccio di droga, ma a me interessava raccontare piuttosto ciò che ancora va difeso nella scuola pubblica.

Come ha scoperto il libro di Marco Lodoli?

G. P.: Me lo consigliò a suo tempo la produttrice Donatella Botti, anche se io sono un lettore appassionato della pagine di Marco. La particolarità di Marco è che, nonostante sia uno scrittore, ha deciso di continuare ad insegnare. Riesce in questo modo a restare costantemente vicino a quella ferita sanguinante che è l’adolescenza. Una ferita da cui trae costante ispirazione anche perché è una parte della vita che ci accomuna tutti. Tra le sue pagine affiorano i ricordi e le sensazioni di tempi ormai passati, momenti particolari della vita di tutti noi che specialmente quando si arriva alla mia età rappresentano forse i ricordi più belli di sempre.

Come e dove avete trovato i ragazzi della IV F?

G. P.: I ragazzi sono stati scelti, come sempre, grazie all’assiduo lavoro degli assistenti. Noi abbiamo fatto provini in diversi licei di Roma e con molta pazienza abbiamo composto la classe, cercando in alcuni momenti di “fare gruppo” tra i ragazzi e, in altri, di scomporlo proprio come avviene normalmente in una classe di scuola.

Cosa ha spinto Giuseppe Piccioni a fare un film di questo tipo ad un certo punto della carriera?

G. P.: Vorrei subito mettere in chiaro una cosa: io non ho mai voluto fare un film sulla scuola e non vorrei che il mio fosse letto come un film sulla scuola. Non bisognerebbe mai leggere un film solo in base all’argomento che questo ha più o meno scelto di affrontare. Pensate al film di Belloccchio: è un bel film, ma alla fine nessuno, o quasi, ha scritto del film in sé. Erano tutti concentrati a parlare di eutanasia. Io non faccio un film per fare un talk-show sull’argomento, faccio i film per dire qualcosa di mio, per raccontare storie che possano tirare fuori il nucleo fondamentale dell’esistere e andare in profondità. Per fare un esempio non proprio scelto bene è come voler insistere che Guerra e Pace sia un romanzo sulla guerra e sulla pace quando, forse, le pagine meno interessanti di Tolstoj sono proprio quelle che descrivono la guerra. Io non ho voluto parlare di porte sfondate, di caos, di bruttura e di violenza, avrei forse preso più consensi, ma io non volevo consensi di questo tipo, non volevo limitarmi a dire che la scuola fa schifo, volevo mostrare che a volte la scuola fa schifo ma che c’è sempre qualcuno che cerca di fare qualcosa per renderla migliore, c’è sempre qualcuno che non si arrende. Io rivendico la mia libertà a raccontare, semplicemente a raccontare.

Come avete lavorato sulla sceneggiatura e sull’adattamento del libro di Lodoli?

Francesca Manieri: La storia, l’avete visto, è multistream, segue vari fili di varie storie che si incontrano. C’è un detto iraniano che dice che la verità è il riflesso in un vetro rotto e ogni frammento ne porta dentro una parte. Noi eravamo consapevoli che l’unico modo per raccontare una realtà era quello di passare per un filtro corale. Una coralità che, però, viene attraversata da un fondo di cinismo che, in un certo senso, attraversando tutti i destini, li unifica in uno sguardo unico.

Siete tornati a scuola per girare un film: secondo voi quanto è cambiata? Oppure, è stata esautorata la sua funzione?

G.P.: Direi che possa cominciare a rispondere a questa domanda proprio Riccardo…
Riccardo Scamarcio: (rivolto al regista) perché proprio a me che sai che quando comincio a parlare di queste cose potrei andare avanti per… (tornando a rispondere alla domanda) che sia stata esautorata non direi, la scuola che abbiamo incontrato durante la preparazione non è molto cambiata da quando l’ho lasciata, in fondo il bello è che ci sia un’interazione vera tra adulti e adolescenti. E nel prepararci per il film abbiamo anche seguito delle lezioni, così, per prendere spunto, per capire meglio e la mia impressione è che davvero molte cose siano rimaste così com’erano. Ma il mio dire non è cambiata ha anche aspetti negativi: gli edifici scricchiolano, i soldi mancano. È difficile fare scuola in Italia, ma deve ancora essere un luogo di partenza. A parte la decadenza fisica dei luoghi con porte che scricchiolano, mi ha colpito il cambiamento della mentalità di certi insegnanti e dei presidi. Mi ricordo di un preside che si vantava, raccontandocelo come un aneddoto che secondo me dice molto più di quel che sembra, di aver acquistato personalmente le due bandiere esposte di fronte alla scuola, il tricolore e la bandiera dell’Europa. Con i suoi soldi. Mi colpiva il fatto che non avesse capito che fosse colpa proprio dell’Istituzione rappresentata da una di quelle due bandiere la causa di questo stato di cose.
G. P.: Per me la scuola ha avuto un effetto ritardato perché solo ora mi rendo conto di quanto sia stato importante l’aiuto di certi professori che a quei tempi mi costringevano ad imparare a memoria i versi dei poeti e dei grandi letterati. Credo che sia fondamentale rimettere al centro della scuola le figure degli insegnanti e dei ragazzi, anziché pensare alle lavagne multimediali, anche perché i ragazzi sono e saranno sempre più informatizzati rispetto alle tecnologie offerte dalla didattica scolastica c’è un personaggio, il prof. Fiorito di Herlitzka, che non rappresenta solo lo scoramento del professore anziano disilluso, ma rappresenta anche la scuola da dove veniamo, quella novecentesca, (rivolgendosi all’attore) non si offenderà, se dico la Scuola del Regno, che viene rapportata alla scuola di oggi. Alla fine di tutto c’è un sano diritto al disincanto, ma la scuola può trovare ancora il suo senso perché può essere un grumo di memoria che fa diventare essere umani. Ma solo se c’è la volontà di rimettere al centro la figura dell’insegnante e dell’alunno.
Margherita Buy: Il rapporto alunno professore mi sembra rimasto lo stesso, è sempre un luogo problematico fatto di tanti incontri, quei luoghi ti rimangono dentro per sempre. L’incontro con gli insegnanti è una cosa che ti rimane dentro, nel bene e nel male, come non puoi scordare i corridoi, i bagni, le litigate con i compagni. E’ un periodo così forte della nostra vita che non si può dimenticare. Io ho sempre avuto problemi a scuola, però non posso negare che mi siano rimasti ricordi importanti di quel periodo. Ecco, è un luogo dove si potrebbero originare milioni di racconti come sono milioni gli studenti che l’hanno attraversata.
Roberto Herlitzka: come diceva Piccioni io mi riconosco nella scuola dei Borbone (ammiccando al pubblico che ride), ma, e lo dico a rischio di apparire impopolare quello che mi sembra cambiato è soprattutto la disciplina. Oggi la disciplina è un valore messo veramente da parte. Posso capire il perché i professori siano giunti a questo bisogno di allentare la sorveglianza, ma ai miei tempi la disciplina era fondamentale e la sua assenza veniva comunque interpretata in negativo, come appunto una “mancanza”, qualcosa che doveva essere corretto. Senza disciplina va a finire che i ragazzi siano meno costretti ad accorgersi del bello dello studiare. Il mutamento più grande sta proprio in questo. C’è da dire anche che i ragazzi oggi a loro disposizione hanno una scuola in più che è Internet, in cui tutti trovano quello che vogliono senza nemmeno doverlo cercare. Si perde in questo modo una delle bellezze più grandi dell’esperienza scolastica: la ricerca.

La sequenza finale con la carrellata che lentamente indugia sui banchi vuoti, lascia con un grande senso di malinconia. Come l’avete concepita e poi girata?

G. P.: Ci sono molte sequenze che hanno una storia particolare e sono la dimostrazione di come non tutto sia scritto prima e poi eseguito a tavolino. La scena di Margherita Buy con Davide Giordano (che interpreta Brugnuoli), ad esempio l’abbiamo girata in poco tempo, anche perché il sole stava tramontando, in dieci ciak. È stata un’intuizione che mi è venuta ad un certo punto e l’abbiamo pensata con gli attori così per dare un senso di come fosse cambiata la vita del personaggio interpretato da Margherita che, alla fine, ha davvero qualcosa da portare a qualcuno e per questo è cresciuta. Mi piaceva la secchezza dei loro dialoghi, ma anche l’aspettativa dello sguardo del ragazzo. Anche la scena del confronto tra Riccardo Scamarcio e Herlitzka in cui Roberto ad un certo punto si sdraia sulla cattedra non era scritta. È stato Roberto che, ad un certo punto delle riprese, si è letteralmente sdraiato sulla cattedra, facendo un rumoraccio infernale che ha pure spaventato il fonico. Io ho riso un poco, ma dopo ho preteso che si continuasse a girare così, accogliendo il suggerimento dell’attore. Stessa cosa si può dire della scena in cui Roberto improvvisa il suo balletto cantando uno spiritual. In sceneggiatura si diceva solo che doveva ballare, ma Roberto ha avuto l’intuizione di mettersi a cantare e la canzone è entrata nel film. Per quel che riguarda la sequenza finale, noi avevamo in realtà girato diversi finali, ma poi al montaggio abbiamo scelto questo perché era quello che riusciva meglio a catturare l’energia implosa degli studenti che aspettano, come spesso accade l’ultima campanella, magari proprio l’ultima dell’anno. Ora è successo questo: i ragazzi avevano la consegna di uscire nel modo più caotico possibile, cosa che è riuscita loro benissimo. Mentre loro erano in corridoio a continuare a fare rumore io sono rimasto colpito da questi banchi vuoti su cui si continuava sentire la confusione dei ragazzi. L’operatore aspettava il mio stop dopo la fuga dei ragazzi, ma io gli ho chiesto di indugiare ancora e poi di fare una piccola panoramica sui banchi vuoti, quelli stessi banchi che, in fondo, erano stati il teatro dei loro incontri e dei loro destini.


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