Incontro con Daniele Luchetti e gli altri protagonisti di Anni Felici

Anni Felici uscirà in sala il 3 ottobre, per ora in 250 copie. E’ una storia familiare ambientata nella Roma degli anni ’70, nell’ambiente dell’arte contemporanea. E’ un film in parte autobiografico, non sappiamo quanto, non è facile capire dove finisce il vissuto del regista e dove inizia l’operazione di pura fantasia. Nelle note di regia, verso la fine, Luchetti scrive che questo è probabilmente uno degli ultimi film girati in pellicola, e Anni felici vuole essere quindi un omaggio alla pellicola e al suo profumo. Luchetti, quindi, risponde a chi gli chiede un approfondimento su questa affermazione:
Luchetti: Per ragioni commerciali la pellicola muore. Questo è l’ultimo film in 35 mm che faccio. La pellicola ha più di cento anni, per me la pasta della pellicola è il cinema. A parte che il digitale non è così "leggero" come si dice, ma è soprattutto uno strumento che ci fa ripensare il modo di fare il cinema. Personalmente non riesco a capacitarmi di come stiamo buttando al secchio un’invenzione così preziosa come la pellicola.
Dopo questo incipit, si entra nel film e le prime domande sono per i due attori protagonisti: Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti. Gli viene chiesto di raccontare i loro personaggi:
Micaela Ramazzotti: Quando ho letto il personaggio sul copione ho pensato che fosse già tutto pronto. Era molto ben strutturato e c’era solo il rischio di poterlo rovinare. Serena è una donna molto complessa e contraddittoria: è matta e responsabile insieme, è mamma e zoccola, è frivola e saggia, ha una ferita dentro, è tormentata. Vive l’amore in maniera infantile, è tutto un gioco ricattatorio, e gli spettatori di questo gioco sono i bambini. Per costruire il mio personaggio mi sono ispirata molto alla mamma di Daniele (Luchetti, il regista, ndr): abbiamo parlato un po’, eravamo entrambe sospettose, soprattutto all’inizio. Prima di iniziare a girare vedevo certe sue foto per ricordarmi certe espressioni del viso. Daniele mi diceva che Serena "sono dieci donne insieme". Devo dire che man mano che le riprese andavano avanti, girando con Kim mi rendevo conto che diventavamo sempre di più Guido e Serena. Anni felici è un raro caso di cinema italiano che parla in un certo modo di adulterio femminile. Serena ha tanti lati, alla fine mi chiedo chi sia veramente, forse senza rendersene conto è una femminista vera..
Kim Rossi Stuart: Devo dire che di questi tempi non è facile incontrare proposte di film veramente interessanti in Italia. Nel momento in cui Luchetti mi ha proposto Anni felici ne sono stato contento. Non ho fatto a priori un’analisi approfondita del personaggio. Mi piaceva il cinema di Daniele e ho accettato la sfida senza avere tempo di conoscere troppo a fondo Guido. Quando ho iniziato a riflettere su di lui, all’inizio non mi sembrava che avesse una parabola particolare, infatti ci abbiamo lavorato un po’ insieme, ho chiesto di poter trovare qualche chiaroscuro che gli desse movimento. Mi interessava molto la leggerezza che possiede il cinema di Luchetti anche quando tocca, e lo fa quasi sempre, temi drammatici. Ecco, ho cercato di portare all’estremo questa cosa, ho cercato qualcosa alla Buster Keaton, per intenderci. Qualcosa che poi Daniele ha rimodellato, diciamo che ha ridato una misura a questa cosa. Ricordo che abbiamo girato talmente tanto materiale che ci potevamo ricavare diversi film, dalla commedia spinta al film super drammatico.
Domanda per il regista sugli aspetti autobiografici del film. Parlare dei propri genitori non è facile. Gli viene chiesto se sua madre ha visto il film. E poi, se il film sarebbe stato diverso qualora fosse stato vivo ancora suo padre..
Luchetti: Il film comincia dicendo "Sono io" e si conclude con "I fatti narrati sono immaginari". Il rapporto con mio padre è stato sempre molto stimolante. Quando ho girato il mio primo film avevo 28 anni e lui ne aveva 49. Ricordo che ci furono uno scambio e una complicità continua. Questo stimolo artistico nella mia famiglia c’è sempre stato, e anche in questi giorni che ripeto sempre a mia madre che i fatti sono inventati, come per tranquillizzarla, lei mi rassicura costantemente dicendo che devo sentirmi libero, perché sono un artista. L’unica cosa di cui si preoccupa sono i vicini di casa che non sanno cosa sia vero e cosa sia falso nel film. Mia madre, comunque, ora ha visto il film e le è piaciuto molto. Posso dire che Anni felici è un atto d’amore all’umanità dei miei genitori, per come sono stati in grado di vivere la loro passione fino in fondo, ma c’è anche una parte in cui invece racconto la loro incapacità di vivere le proprie passioni fino in fondo.
Altra domanda al regista sulla scelta dell’attrice tedesca Martina Friederike Gedek:
Luchetti: Quando sono andato in Germania per i provini, Martina mi ha colpito molto perché era calda ed accogliente. Era perfetta, perché dava benissimo l’idea di essere capace di ascoltare Serena, che non era mai stata ascoltata da nessuno. In più, ogni volta che vedevo i suoi film, mi scaldava sempre moltissimo.
Pronta la replica dell’attrice tedesca, interprete, tra gli altri, dei film Le vite degli altri e La Banda Baader Meinhof
Martina Friederike Gedek: Per me è stato l’incontro con un grande regista. Tutti i suoi film mi erano piaciuti molto. Sono tutti vivaci, ma di una vivacità diversa rispetto a quella generale che è una caratteristica positiva del cinema italiano. Anni felici è un film sull’amore, ma un amore senza costrizione, senza che nessuno finisca per essere rinchiuso dentro un obbligo. Perché purtroppo è quasi sempre così: si tiene l’altro appiccicato a noi. Lo si tiene in una stanza dalla quale non può uscire. Mi interessava questa ragazza che ha un’altra visione della vita. Helke, il mio personaggio, è in qualche modo il simbolo del cambiamento e della libertà. Questo credo sia il bello di lei. Sapevo che Daniele non vuole annoiarsi e quindi ho fatto di tutto perché non si annoiasse.
Domanda ai due attori protagonisti sull’idea degli anni ’70 che si sono fatti girando questo film. Gli viene chiesto se secondo loro sono davvero gli anni della libertà
Kim Rossi Stuart: Io penso che alla libertà aspiriamo bene o male tutti. Penso che forse non esiste, che è solo un moto che ci spinge a fare la cose. Io ricordo gli anni 70, almeno ne ricordo una parte perché sono nato nel ’69. Mi ricordo un sacco di tossici che giravano per le strade e non mi sembra che fossero molto liberi. Credo ci fosse un grande desiderio di libertà, che si esprimeva ed esplodeva anche attraverso la violenza. Sinceramente, però, non riesco a collocare l’aspirazione alla libertà all’esterno di qualcosa che coinvolga l’essere umano fin dalla sua nascita.
Micaela Ramazzotti: Io ero piccola, e quindi non ho ricordi. Ma mi sono venute fuori delle riflessioni su quegli anni girando questo film. Ho notato che forse c’era differenza nell’educare i figli. Nel senso che ai figli si dava meno peso, ed erano meno capricciosi di oggi. La mamma e il papà se li portavano dietro, e se facevano i capricci erano anche botte. Adesso, invece, forse si rischia di avere dei piccoli imperatori in casa e non siamo più quei genitori di allora. Siamo lì che compriamo manuali che studiamo per non fare errori, e mi chiedo se sia giusto, se faccia bene o no.
Domanda a Luchetti sul perchè ha scelto di andare a Toronto e non a Venezia
Luchetti: Io credo che non sia una scelta così rivoluzionaria decidere di non andare a Venezia. Credo che le proiezioni in Nord America siano molto più rilassate. Lì un film non è mai una questione di vita o di morte. Mi piaceva ci fosse questo clima per un film che sentivo molto delicato. Mi piaceva il fatto di poter andare tranquillamente alla proiezione senza alcuna pressione, al massimo qualche pacca sulla spalle, due chiacchiere col pubblico mentre mangiava pop corn. A Venezia c’è un’aria sontuosa e solenne, che per certi versi mi è mancata, devo essere sincero. In più, ma questo è un aspetto secondario, volevo andare in anteprima in un posto dove ci fosse un forte mercato. A Toronto, alla proiezione per il mercato c’erano 400 compratori. A Venezia non credo ce ne siano altrettanti. Ma, ripeto, per prima cosa cercavo un’atmosfera più easy, dove poter gestire meglio le forti emozioni che questo film mi ha dato.
Sempre a Luchetti sulla scelta dei due bambini nel cast.
Luchetti: I bambini non si dirigono, si scelgono bene. Perché non sono in grado di accogliere le normali indicazioni che tu gli dai. Devi trovare bambini che siano il più possibile vicini a quello che tu hai immaginato o che contraddicano il personaggio in maniera creativa o inventiva. I bambini del mio film sono così. Il segreto di dirigere i bambini è non dirigerli.
Viene fatto notare al regista e agli sceneggiatori come nel film ci sia un diverso rapporto tra il critico e l’artista rispetto alla norma. Qui c’è quasi un happy end tra artista e critica, cosa che non capita spesso al cinema. Al regista viene chiesto quanto ci sia di autobiografico in questa scelta.
Luchetti: Il mio rapporto con la critica lo vivo un po’ come un’occasione mancata. Ci potrebbe essere un dialogo importante, ma invece non c’è. Vorrei che ci fosse un rapporto tra critica e registi come c’è nel mio film. Nello stesso tempo, però, dico che ascoltare troppo gli altri è sbagliato. Bisogna lavorare più sull’istinto che sulla consapevolezza. Se prendi troppo un regista come modello inizi a fare un film “alla” e ti trovi in un "dover essere" così come è il protagonista del film. Insomma, è importante il dialogo, ma fino a un certo punto. Poi le cose vanno messe da parte e si deve procedere creando istintivamente, senza fare calcoli e cercare si somigliare a chi ha successo.
Sandro Petraglia: La caratteristica generale del film è l’essere affettuoso verso le cose che racconta. E’ affettuoso verso quegli anni, tra l’altro abbiamo cercato di collocarlo un momento prima del terrorismo, prima che quegli anni diventassero così crudeli e drammatici. E in generale questa dolce estate che si racconta è fatta anche di poche asprezze. Il discorso del critico, nel film, sta dentro questa materia morbida che si racconta. A me piace tantissimo il modo in cui l’attore che interpreta il critico ha gestito le cose che doveva dire. Il tentativo era di raccontare quel mondo con rispetto, con affetto, perché spesso nei film viene presa un po’ in giro l’arte contemporanea, con dei personaggi buffi ecc. Noi invece abbiamo cercato di essere il più possibile veri e abbiamo cercato anche di esserlo con il personaggio del critico, che ovviamente rileva nella performance del protagonista un “dover essere”. Gli dice: “Tu non sai neanche cos’è una passione”.
Caterina Venturini: Noi, come già fatto in passato, abbiamo lavorato molto sugli stereotipi. Quando ci si immagina un critico, abbiamo subito in mente una persona dall’aspetto segaligno, dai lineamenti che sottolineano l’acutezza del pensiero. E invece Daniele aveva le idee molto chiare sul personaggio: lo voleva molto caldo, voleva un personaggio che avesse delle ragioni e che si ponesse in modo quasi paterno, quindi un po’ contraddicendo quella sorta di inimicizia che invece c’è sempre stata tra artista e critico.
Stefano Rulli. Io sono stato anche critico in passato e quindi c’è anche qualcosa di mio in quel personaggio. Nell’essere molto polemici ci può stare anche una grande passione. Io, per esempio, scrissi su Ombre rosse delle cose invereconde sul cinema italiano, ma erano dettate dalla grande ammirazione e dalla grande aspettativa che io avevo dal cinema italiano. Credo che il critico del film metta grande onestà dentro le sue stroncature.
Poi Rulli torna a parlare degli anni ’70 del film:
Stefano Rulli: C’era un po’ il tentativo di raccontare quegli anni, che considero un periodo stranissimo, particolare, nel quale si sovrapponevano vecchi valori e rigidità ideologiche con un nuovo spazio per pensare altro, per vivere altre esperienze. Questo si vede bene anche attraverso il personaggio di Helke, che porta dentro di sé un vento nuovo nella vita di una casalinga.
Rulli sul personaggio di Guido:
Stefano Rulli: Il personaggio di Guido è stato il più difficile da scrivere: eravamo molto preoccupati dallo stereotipo dell’artista d’avanguardia che fa i buchi nella tela e poi ha successo. Nel film c’è molto rispetto per i personaggi e per le loro contraddizioni, perchè quello è stato un periodo di grandi contraddizioni e di grande vitalità, forse se uno avesse vissuto gli anni ’50 si sarebbe reso conto di quanto invece c’era più libertà in quegli anni ’70. Libertà nell’amore, nei rapporti sessuali, nelle relazioni umane. Sono stati anni di grande tragedia e di grande libertà.
