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Intervista a Marco Bellocchio - Il traditore

Pubblicato il 22 ottobre 2019 da Cristina Canfora


Intervista a Marco Bellocchio - Il traditore

Incontriamo a Londra, in vista della corsa agli Oscar, il rappresentante italiano. Con Il traditore, Marco Bellocchio porta sul grande schermo la storia di Tommasso Buscetta, l’ex boss dei due mondi che fu il primo membro di Cosa Nostra, a diventare collaboratore di giustizia.
Presentata in anteprima mondiale alla 72° Mostra del Cinema di Cannes, e uscita nelle sale italiane a fine maggio, la pellicola trova spazio nella sezione Thrill del London Film Festival.

Siamo in Sicilia, inizi anni ’80, il monopolio del traffico della droga è nelle mani delle famiglie di Cosa Nostra palermitane e corleonesi (di cui è leader Totò Riina), che lottano fra loro pur mantenendo una facciata di amicizia. Dopo una festa a casa di Stefano Bontante, Buscetta intuisce la faida imminente e decide di rifugiarsi in Brasile. Comincia una serie di delitti, boss e familiari vengono sterminati senza pietà. Nel frattempo Don Masino (il soprannome di Buscetta) viene identificato, catturato e torturato dalla polizia brasiliana che lo condanna all’estradizione in Italia. Soltanto Falcone presenta un’alternativa all’imminente vendetta dei corleonesi: collaborare con la giustizia per salvarsi la vita.

Con un cast eccezionale che vede uno straordinario Pierfrancesco Favino nei panni di Buscetta, un più che mai brillante Luigi Lo Cascio come Totuccio Contorno e Fausto Russo Alesi in un controllato Falcone, Il traditore racconta una pagina dolorosa ma importantissima nella storia dell’Italia moderna.

Il film ha trovato di recente un plauso nella critica Americana e sarà distribuito nell sale d’oltre oceano. Possiamo definirlo come un film dei due mondi che parla del boss dei due mondi?
Marco Bellocchio: «Noi siamo stati a Parigi prima di venire qui, stiamo facendo una campagna di promozione e a seconda delle fortune del film andremo più o meno in giro. In Francia dovrebbe uscire verso la fine del mese mentre negli Stati Uniti un po’ più in là. Si, è stato molto ben accolto, non ho letto con particolare attenzione la rassegna stampa, ma quando vedi che i distributori sono contenti è un risultato positivo».

Quindi pensa che possa essere capito da un pubblico come quello americano? Anche in vista degli Oscar?
M. B.: «Capito, ma sicuramente con delle sfumature diverse. Però il tema, la parola mafia (che poi è Cosa Nostra) è abbastanza internazionale. Buscetta ha vissuto negli Stati Uniti e collaborato con l’FBI per quell’altro processo (Pizza Connection) quindi è ben conosciuto. Loro poi hanno tutta una tradizione mafiosa americana che però è molto collegata con quella siciliana. In questo loro sono maestri. Ma quando vogliono fare film da americani in Italia (come quello su Buscetta e Falcone, fatto da americani con attori americani) non stanno in piedi. Lo stesso capolavoro di Coppola, quando si sposta in Sicilia, diventa più fragile. Il film resta un capolavoro, però la parte italiana, per noi italiani è qualcosa di più debole rispetto al tutto».

Cosa la affascina tanto del personaggio di Tommaso Buscetta?
M. B.: «Mi ha affascinato la storia, non personalmente lui. Io appartengo a un’altra cultura, un’altra società, un altra classe. Buscetta è un uomo molto ignorante ma allo stesso tempo molto intelligente, anche gli intellettuali che lo hanno conosciuto ne sono rimasti colpiti. La sua capacità di intuire immediatamente i rapporti è ragguardevole. Non è che avesse un disprezzo verso la cultura, semplicemente non gli interessava. Negli anni di prigione, o anche negli anni in cui ha dovuto restare nascosto, non ha cominciato a leggere Leopardi o Manzoni. Era interessato al calcio, era un tifoso della Juventus, è c’è quella famosa battuta di Gianni Agnelli che disse: "la Juventus è l’unica realtà di cui Buscetta non dovrà pentirsi". A me interessava il suo percorso, perchè è un percorso abbastanza misterioso ma pieno di sentimenti: agitazione, perplessità, incertezza. Lui non voleva collaborare. Non si tratta di una psicologia nevrotica come potremmo trovare in certi soggetti che riconosciamo di più. Non è un Woody Allen, ecco, per dire. Però prima di decidere di collaborare ha rischiato di morire, ha tentato il suicidio. Per non andare in Italia e ritardare questo momento di confronto. A cui è stato costretto dal giudice Falcone. Ha deciso di parlare per sopravvivere. Per proteggere la sua famiglia. Penso anche per un senso di colpa nei confronti dei figli abbandonati in Italia e uccisi in Sicilia. Era un uomo coraggioso, che non temeva la morte. C’era anche un aspetto di vendetta contro Riina che gli aveva sterminato la famiglia. Lui ha limitato la sua collaborazione. Lo accusavano di essere un libertino e lui di questo non voleva parlare. Della sua famiglia non voleva discutere. Solo di fatti criminali legati alla mafia. Era molto preciso. La sua collaborazione è risultata molto credibile proprio per questo, ma limitata, confinata. Di se stesso non ha voluto parlare, anzi ha rifiutato di essere stato un trafficante di droga. E probabilmente lo era stato. Disse di non ver mai ucciso nessuno e probabilmente, invece, aveva compiuto dei delitti. Mi dicono gli esperti che se devi entrare nella mafia devi fare una prova, una prova di sangue».

La scena in cui Buscetta scorge Andreotti nel negozio di abiti su misura, è basata su fatti reali o esigenza di copione?
M. B.: «Penso la seconda ipotesi. Nel film tutto ciò che è detto è vero, parte da una verità. Però poi dopo…che lui fosse piuttosto vanitoso è vero. "Io collaboro però voglio essere vestito nelle migliori sartorie". Diceva De Gennaro (il poliziotto braccio destro di Falcone) che anche la biancheria intima doveva essere di ottima qualità, la vestaglia doveva essere di seta. Quindi è vero che lui andò in una sartoria per i suoi vestiti. Non so se fosse Caraceni, Carceni a Roma è la sartoria dove vanno i politici, gli attori. Un cliente di Caraceni era Andreotti. Mi sono immaginato che si fossero incontrati. Poi la figura di Andreotti che esce in mutande, ecco quella è una licenza poetica, assolutamente inverosimile».

Nel film c’è una grande componente teatrale, specialmente nella parte dedicata al processo. Come mai è stato importante inserire questa dimensione ai fini della narrazione?
M. B.: «Anche questo è un dato di realtà. Nell’universo mafioso, lo stupore di essere tutti insieme in questa specie di anfiteatro è stato assoluto, non avrebbero mai immaginato di arrivare a questo. Perchè non si era mai arrivati a questo. Soprattutto, attraverso personaggi secondari, inscenano una serie di numeri che non hanno lo scopo di divertire il pubblico, ma servono a ritardare, ostacolare, arenare. Cercano tutti gli espedienti possibili per posticipare il processo. Addirittura, e noi questo lo abbiamo un po’ tagliato, c’erano degli imputati che richiedevano la rilettura di tutti gli atti del processo. Migliaia e migliaia di pagine. Che formalmente era anche possibile. Il presidente lo ha negato, ed è stata la dimostrazione della volontà da parte del potere giudiziario di arrivare a una sentenza. Poi naturalmente la parte di teatro è stata accentuata e condensata. Il processo è durato quasi un anno e nel film dura venti minuti. Risalta maggiormente proprio per il clima tragico-grottesco. È questo che volevo emergesse. Ognuno di noi inserisce la propria esperienza, la propria sensibilità in ciò che produce. L’opera è un po’ una delle forme d’arte su cui mi sono formato. Il processo era reale ma esaltato in uno stile, una forma, un dramma. Ho preferito questa cose. Magari un altro artista avrebbe scelto altri aspetti della stessa storia. Però questi fatti che io ho condensato, alcuni più eclatanti, altri più sottili, come ad esempio il commento di Liggio (Vincenzo Pirrotta) “questi mi guardano”, sono veri. Naturalmente noi l’abbiamo messo in scena, però lui diceva veramente “ma io devo guardarlo in faccia, questi continuano a guardarmi, mi fissano”.

La fotografia, soprattutto nella prima parte del film, sembra essere molto scura quasi a rispecchiare questo stato di uomo nell’ombra, di fuggitivo. Sono state scelte volute? Che indicazioni sono state date per la fotografia?
M. B.: «Si, il cinema assomiglia alla pittura. Io vengo dalla pittura. A me piace un’immagine realista ma anche espressionista in cui i contrasti sono più forti. Quindi il controluce. Io cerco sempre di lavorare, mai sulla luce diretta ma su quella di contrasto. Questo è un fatto personale. Semmai questa fotografia contrastata è la più difficile da realizzare. Anche se poi siamo riusciti a realizzarla, anche nell’aula bunker. Perchè essendovi un grande spazio, e più che altro una luce diffusa, era difficile realizzare un’immagine fortemente contrastata, che però io volevo fare a tutti i costi, e in qualche modo ci siamo riusciti. Dando delle luci di taglio e non una luce anonima, più realistica. Il cinema è la luce, non dico che è tutto, però è molto. Abbiamo lavorato con Vladan Radovic, perchè Daniele Ciprì era occupato con un altro film, e ci siamo intesi. Spesso abbiamo lavorato, ad esempio per tutte le scene dei delitti, con delle immagini uniche. Sia per l’assassinio di Bontate che per la morte di Falcone siamo stati sempre dentro. È uno stare nell’oscurità mentre la luce veniva da fuori. In questo senso abbiamo cercato di unificare tutta una serie di scene che si ripetevano con uno stile che in qualche modo le scandisse in modo simile, sbrigativo, mai compiaciuto su particolari orripilanti. Anche quando avvengono delle cose orribili come il taglio del braccio».

Come si è svolta la costruzione del rapporto tra Buscetta e Falcone?
M. B.: «Sul rapporto con Falcone c’era una difficoltà specifica che era quella di non farne il santino, l’eroe. E allora abbiamo lavorato già nella fase di sceneggiatura e poi dando agli attori un registro di estrema discrezione. Soprattutto per Falcone, perchè la mia preoccupazione è che ne uscisse una figura un po’ retorica. Buona, eroica, ma retorica. Fausto che è un grande attore ha dato un piglio minimo. Era però un passaggio centrale del film di cui non è che io avessi paura ma capivo che sarebbe stato un limite, un passo falso, fare di Falcone un eroe contemporaneo. Era un eroe, ma un eroe che non si vede, al contrario di Buscetta. Buscetta agisce per sopravvivere - io devo sopravvivere ai criminali corleonesi - Falcone dice - io lo faccio a rischio della mia vita perchè credo in quello che facci, credo che sia giusto, credo nelle istituzioni. Per me un uomo così che mette la propria vita in prima linea è ammirevole. Ma abbiamo cercato di evitare la retorica».

Guardando il film scaturiscono emozioni contrastanti di dolore e rabbia, cosa vuol dire essere dentro la produzione di questo film e cosa le lascia dopo? Lo osserva con freddezza oppure le lascia qualcosa?
M. B.. «Sicuramente mi lascia qualcosa. Certo una volta finito un film te ne separi, ma lo riguardi attraverso le emozioni del pubblico, di chi lo ama, di chi non lo ama. È un’altra vita, una seconda vita. Durante la produzione le (mie) preoccupazioni sono maggiormente nella preparazione del film stesso, nella scrittura. Io sono sempre scontento, non per un compiacimento mio personale, ma perchè effettivamente la scrittura deve essere una bella preparazione ma poi tu ti giochi tutto durante le riprese. Il momento della verità è quello lì. Le riprese. Ed è quello che ti da la voglia di continuare a fare questo lavoro, perchè se tu non ti diverti durante le riprese è un altro discorso, diventa un mestiere. Però durante le riprese allo stesso tempo, ti dimentichi, perdi il rapporto con il tutto. Il rapporto con il tutto lo ritrovi, insieme agli errori e alle cose non riuscite, al tavolo di montaggio. È un processo abbastanza complesso. Però, ne fai poi degli altri, speriamo!

Farà una serie tv su Aldo Moro?
M. B.: «Si dovrei...»


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