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Kids stories: l’antropologo bambino in Alice nella città

Pubblicato il 30 ottobre 2011 da Alessandro Izzi


Kids stories: l'antropologo bambino in Alice nella città

Prendi una macchina da presa, scendi in strada, scegli un uomo che passa di lì per caso, coi suoi problemi, le sue ansie, le sue paure e la sua quotidianità fitta di eventi senza importanza, pedinalo, riprendi ogni suo gesto ed ogni sua mezza parola ed avrai ottenuto il Neorealismo. Fai la stessa cosa con un bambino e non potrai che ottenere una favola.

Lo sguardo di un bambino ha questo che lo rende unico: ad ogni passo si riempie di stupore, non conosce le abitudini, ha fiducia che qualcosa di nuovo possa sempre accadere. Se ti incontra per strada un tizio con baffi grandi, il bambino, ha la stessa sicumera di Cappuccetto rosso a chiedere il perché di tanto pelo. Se gli dici che a Parigi c’è una torre alta alta che sfida il cielo, lui la vuol vedere, toccare, sentire. E non ha paura del fatto che gli aerei, quando si arrabbiano, volano via lasciando la terra perché tanto sa che c’è un robot gigante che mette tutto a posto e salva il pianeta dall’incubo dei viaggi a lunga percorrenza.
Non ha bisogno di bacchette magiche o di fate per pensare che sotto la crosta del mondo di tutti i giorni possa nascondersi qualcosa di fatato perché il bambino vive già sotto quella crosta e la gratta tutti i giorni, ansioso e un po’ timoroso di venire a galla, tra adulti che non si spaventano più, ma hanno paura tutti i giorni.
Il bambino si sgomenta ad ogni battito del cuore ed è questa la sua sola abitudine. Filmarlo alla sua altezza è l’impresa più difficile del mondo perché se è vero che a dirgli di essere se stesso davanti ad una macchina da presa son bravi tutti perché i bambini non sanno altro che essere se stessi, nondimeno resta il problema di adeguare il respiro di chi filma al suo.

Sigfried fa questo in Kids stories. Sceglie non casualmente un linguaggio apparentemente caotico, in continuo divenire, in cui lo spettatore non può non sentirsi precipitato da una parte all’altra senza altro motivo che il seguire una suggestione che spesso dura appena un battito di ciglia. Il tutto in un susseguirsi d’impressioni che appare liberissimo, ma che si rivela poi perfettamente inquadrato nell’anima doppia di un racconto perfettamente chiuso entro suggestioni audiovisive che non nascondono ascendenze letterarie.
Nella prima storia, di questo dittico assai complesso, Kabir è un bambino che mal tollera le imposizioni della scuola e di una madre assente ai suoi bisogni. L’episodio principia proprio laddove si chiudeva I 400 colpi di Truffaut, con la fuga del bambino dalla scuola e dai problemi del mondo adulto, e prosegue col suo perdersi nel mondo con uno spirito improvvisativo che ti dà l’impressione che il regista si sia limitato a dire al suo piccolo attore “Tu che faresti?” per poi seguirne i sogni e le buffe avventure. In realtà non ci vuol molto a rendersi conto che l’anima del racconto sono i soldi, il loro libero passare di mano in mano, la loro necessità e la loro reperibilità. Il viaggio di Kabir comincia, infatti, in un giardino incantato, dopo che il piccolo se è strappato di dosso la mal tollerata uniforme scolastica e si è tolto quelle scarpe che non gli permettono un contatto fattivo con la terra ed il mondo. In questo giardino fatato, ombroso ed invisibile agli occhi di tutti, il ragazzino ha, però, anche modo di raccogliere un sacchetto con delle monete che sono il preludio all’intero segmento narrativo. Senza l’autonomia economica nessuna fuga è possibile, pare essere la consapevolezza di Kabir, che spende e spande il suo piccolo gruzzolo, ma investe anche, diventando venditore di giornali in un mondo troppo abituato a vedere i bambini lavorare per porsi seriamente il problema se siano o meno scappati da casa.

Se il denaro è il protagonista occulto dell’episodio indiano, la posta lo è di quello kazako, profondamente dominato dalla circolazione e dal movimento delle lettere, tanto che l’intero segmento è introdotto dalla figura adulta del postino che sfida il vento per consegnare la corrispondenza nei posti più lontani. Ancora una volta è l’interconnessione insita nel passaggio (economico nel primo episodio, epistolare nel secondo) da persona a persona a palesarsi l’anima segreta che affrattella due storie altrimenti diversissime per contenuti e stili. Ad ogni modo sono due le lettere che definiscono la base dell’intreccio. La prima è quella che la piccola Arujan deve consegnare alla nonna che si trova, per commissioni, al di là della steppa. La seconda è quella che il piccolo Altimbek vorrebbe far recapitare alla ragazzina di cui è invaghito. In entrambi i casi il tentativo di consegna della missiva conduce ad uno smarrimento: la bambina più piccola si perde nel paesaggio desertico e si confronta con le sue paure, il ragazzino si trova catapultato invece nella terra di mezzo tra infanzia e mondo adulto dal momento che i compagni di gioco lo scacciano, ma è ancora troppo presto per pensare seriamente al matrimonio.
L’attrazione sentimentale tra i bambini, che mima in qualche misura quella ben presente e anzi fondante del mondo adulto, è il secondo fil rouge che lega le due storie e definisce lo spazio entro cui la dimensione poetica dell’adesione allo sguardo infantile trascolora nell’anima antropologica di questo film assai più stratificato di quanto non paia a prima vista. Un piccolo capolavoro in cui lo stile, sperimentale e franto, si sposa in maniera brillante con le ragioni segrete della poesia.


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