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La terra dei santi (Conferenza stampa)

Pubblicato il 26 marzo 2015 da Stefano Colagiovanni


La terra dei santi (Conferenza stampa)

Roma, 18 marzo 2015

In una piacevole e soleggiata mattina a Villa Borghese, tra le mura accoglienti della Casa del Cinema, si è tenuta la conferenza stampa di presentazione de La terra dei santi, primo lungometraggio di Fernando Muraca, autore conosciuto e rispettato per i suoi molteplici lavori televisivi. Presente all’incontro quasi tutto il cast principale al completo: Valeria Solarino, Lorenza Indovina, Antonia Marra, Marco Aiello, Piero Calabrese, Tommaso Ragno, il regista Fernando Muraca, la scrittrice e sceneggiatrice Monica Zapelli e alcuni membri della ASAP Cinema Network che si è occupata della distribuzione del film.

Come è nato questo progetto e cosa ti ha affascinato di più di questo argomento così importante e così complesso, considerate le molte sfumature che hai inserito nel film?

Fernando Muraca: Io sono nato in Calabria a Lamezia Terme, quindi conosco questo fenomeno molto bene, mio papà aveva questa ditta di costruzioni che è stata distrutta dalla ‘ndrangheta, quindi ho respirato nella mia adolescenza questo fenomeno, provandolo sulla mia pelle. Mi venivano sempre in mente le parole di Falcone che diceva che prima o poi la ‘ndrangheta finirà e mi sono sempre domandato in che modo potesse finire. Ma poi mi sono chiesto perchè le donne calabresi, le donne in generale, così legate alla famiglia decidono di dar loro i propri figli, sapendo che moriranno giovani o che passeranno la propria vita in galera. Ma non ho trovato risposta e mi sono detto che, forse, questa domanda non se la pongono affatto. Poi ho incontrato Monica (Zapelli) e sapevo che aveva scritto già di film su questo argomento e insieme abbiamo cominciato a ragionare, per realizzare un film sulle donne. Sono andato da lei e mi ha chiesto perchè non partire dalla responsabilità genitoriale, farne il cuore del film, attraverso cui raccontare il fondamento di questa realtà.

Monica Zapelli: Come sceneggiatrice, quando si prospetta la possibilità di lavorare sull’argomento della criminalità organizzata, compare lo spettro del dubbio su come affrontare questo argomento. Io trovo che il cinema deve avere qualcosa che la televisione, per fortuna, ogni tanto può permettersi di non avere, ovvero una sua dimensione universale. Io vengo da un film molto amato, I cento passi, che è la storia di un romanzo di formazione, nel quale c’è un rapporto padre/figlio e quando ho colto l’opportunità di fare un film sulla ‘ndrnagheta mi sono chiesta quale potesse essere la domanda universale che avrebbe fatto da sfondo al racconto: e l’abbiamo trovata in un provvedimento della procura di Reggio Calabria del 2008, che toglieva la potestà genitoriale ai figli del boss De Stefano, quindi la domanda era “di chi sono i figli?”. Esiste per lo Stato la possibilità di intervenire sui figli di queste persone, laddove se ne sente davvero la necessità, per evitare loro il carcere o la morte? Lo Stato ha questo diritto o no? La procura di Reggio è andata avanti su questo argomento e ora esistono venticinque ragazzi che vivono in una comunità formatasi per realizzare questo progetto di salvataggio, per far conoscere a questi ragazzi scenari di vita diversi da quelli con i quali sono cresciuti. Poi mi è piaciuto inserire nel racconto dei personaggi che fossero soli, perchè in Calabria c’è sempre questa idea che tra chi indaga e chi è indagato c’è sempre uno scontro tra solitudini: nel film Vittoria è sola, ma lo è anche Assunta. E su questa solitudine abbiamo cercato di costruire il percorso, consapevole che alla fine di questa ci sia davvero qualcosa di bello, poichè con il confronto, magari conosciamo qualcosa degli altri e potremmo così migliorare il rapporto con noi stessi.

Si è parlato di questo provvedimento della Procura, ma i figli vengono davvero tolti alle madri e alle loro famiglie? E le donne sembrano davvero ricoprire posizioni sempre più forti all’interno di queste famiglie votate alla ‘ndrnagheta, forse a volte anche più degli uomini...

M.Z.: Io sono stata a contatto con situazioni del genere da molto vicino, ho vissuto racconti di bambini che venivano svegliati mentre dormivano dalla guardia di finanza quasi ogni notte, che faceva irruzione in casa destabilizzando il loro piccolo mondo, e questo genere di cose implica un elevato livello di sopportazione da parte dei più piccoli. Non è affatto facile per loro. E ci sarebbe bisogno di un tessuto sociale forte e autoritario per far fronte a ogni esigenza, mentre vediamo come lo Stato entri in ambito investigativo all’interno della vita di queste persone, mentre non lo fa quasi mai a livello sociale, forse perchè, a dirle tutta, un assistente sociale può anche avere paura di entrare in una realtà come questa. Mentre per le donne, alla fine dei conti, penso che loro siano convinte che sia il sistema a vincere, mentre il singolo perde sempre e così quando ti vedi il primo e il secondo figlio finire in prigione o peggio, ecco che il terzo figlio lo vuoi salvare e fai di tutto per riuscirci. E’ chiaro che poi loro vanno incontro alle volontà dei mariti, ma lo Stato deve avere la forza di dialogare con queste donne che decidono di provare a cambiare qualcosa.

E le donne del film, le protagoniste, come hanno lavorato considerati questi presupposti?

Valeria Solarino: Per me la cosa più difficile è stata entrare nella testa di Vittoria, confrontarsi con l’idea di considerare la propria vita come una missione, avere poca vita privata, dedicare la sua vita a questa lotta. La cosa che mi ha affascinato di più di questa sceneggiatura è stata proprio la possibilità di poter parlare di donne di mafia, del rapporto che si può creare tra un magistrato donna e una donna di mafia e il provvedimento estremo di togliere un figlio a una madre diventa un modo per cercare di scardinare questo sistema dall’interno, non una minaccia o altro, un passo avanti dal punto di vista culturale.

Antonia Marra: Io sono di Reggio Calabria e ho avuto la possibilità di vedere, leggere e conoscore di donne e madri, anche più giovani di me, con figli vivere in contesti davvero difficili. La maggiore ispirazione, quindi, è stata proprio questa, l’impressione che ho raccolto osservando queste donne che sono madri che hanno responsabilità in un contesto dal quale non hanno la volontà di uscire. Assunta decide di uscire proprio quando l’ultimo figlio le viene tolto con forza, quindi lei reagisce solo quando si trova in una situazione estrema, ma quello in cui vive è il solo mondo, purtroppo, che ha conosciuto.

Lorenza Indovina: Io ho iniziato la mia carriera con film che parlavano di mafia e questi sono argomenti che conoscevo molto bene. La mia maniera di affrontare il personaggio è stata quella di non imporre al mio lavoro alcun pregiudizio e nei panni del mio personaggio, Caterina, dal suo punto di vista lei non ha torto, sta semplicemente proteggendo la sua famiglia, proteggerla secondo le regole che vigono in questo mondo a cui appartiene. Il film ci mostra un mondo radicato in questa cultura mafiosa. Queste donne sono persone che noi incontriamo ogni giorno, assolutamente inserite nella società in cui tutti noi viviamo e proprio per questo non ho provato a dare giudizi, ma strutturare il personaggio in base a un punto di vista neutrale, diverso.

Qual’è il punto di vista degli uomini? Come hanno vissuto la nascita di questo progetto e quali emozioni ha suscitato in voi l’ambiente e la realtà mafiosa?

Tommaso Ragno: Io non sono Calabrese e non conoscevo quella realtà, ma sono contento di aver imparato qualcosa che non sapevo fare, ovvero imparare una dialetto, affrontare un nuovo modo di parlare. Per me contano molto le persone con cui ho lavorato e abbiamo trovato una grande intensità. Per me in questo ambito non c’è un “io”, ma un “loro”, ci siamo noi tutti del cast dentro.

Marco Aiello: Io sono Calabrese e per questo ho trovato la fortuna e la motivazione di lavorare a questo progetto. Ho avuto la possibilità di respirare questa realtà nei piccoli quartieri, e ho avvertito la fortuna di poter raccontare questa realtà. E’ il primo lavoro a cui partecipo e mi ritengo molto fortunato, anche per aver lavorato con un regista calabrese.

Piero Calabrese: Questa esperienza per me è stata molto utile e sono sicuro che mi aiuterà in futuro. Il mio personaggio è molto chiaro e ha un obiettivo, un bisogno molto chiaro, quello di arrivare al potere e per raggiungere questo status farebbe davvero di tutto. La parte più difficile è stata proprio arrivare a capire il percorso mentale intrapreso dal mio personaggio e ciò mi ha emozionato molto. Questo film racconta un qualcosa che oggi in Italia si fa molta fatica a recepire.

Come nasce l’idea del titolo del film?

F.M.: Ho svolto molte ricerche sulla storia della Calabria e ho scoperto che esisteva un monachesimo diffuso, monaci che vivevano in un monastero e poi si spostavano in altri. Le comunità spesso erano piccole, chiuse e i dialetti cambiano molto. In questo modo i monaci consentivano una circolazione culturale, poi quando questa diffusione venne spezzata, tutto tornò a essere frammentario. Una volta giunse un monaco dalla Grecia chiedendo dove fossero gli altri monaci, i monasteri popolati, perchè in Grecia la Calabria viene considerata come una terra di santi, mentre oggigiorno la conoscono tutti per i santisti che la abitano, che si battesimano sia alla religione che alla ‘ndrangheta. Quindi il titolo è simbolico, una speranza che la Calabria si ricongiunga alle sue tradizioni.

Cosa vi aspettate dalla Calabria?

F.M.: Ho una grande fiducia nel popolo calabrese e non penso che una minoranza di manigoldi e violenti possa schiacciare per sempre un popolo. I calabresi hanno risorse enormi e sono intelligenti, ma bisogna supportare i processi culturali. E’ chiaro che un film non può cambiare la storia di un popolo, ma questo processo culturale di cambiamento è già iniziato, soprattutto per mano di coloro che hanno perso intere famiglie per colpa della ‘ndrnagheta, da persone che hanno dato la vita, aiutati dai magistrai per combattere tutto ciò.

Il film uscirà nelle sale il 26 marzo 2015, distribuito dalla ASAP Cinema Network in un numero di venti copie totali.


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