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Lezione di cinema con James Ivory

Pubblicato il 2 ottobre 2010 da Elisa Mandelli


Lezione di cinema con James Ivory

Milano, 30 settembre 2010

Nell’ambito delle “Lezioni di cinema”, ciclo di appuntamenti organizzati da OffiCine (progetto culturale di Anteo Spazio Cinema e IED), in cui importanti cineasti sono invitati a raccontare il proprio rapporto con la macchina da presa, James Ivory, affiancato dal critico Maurizio Porro, si è cimentato nell’impresa di discutere con un pubblico curioso e partecipe i più svariati aspetti del proprio lavoro, riuscendo a far emergere in modo straordinariamente limpido la propria idea di cinema.
Primo tema ad essere toccato è stata la relazione con la letteratura: questione decisamente cruciale, dal momento che non è solo l’ultima fatica del regista, Quella sera dorata, ad essere tratto da un romanzo (quello omonimo di Peter Cameron), ma – come Ivory stesso ha precisato – ben il 60% della sua produzione. Rapporto con la letteratura che vuol dire anche rapporto con gli scrittori, da quelli del passato (Henry James o E. M. Forster, alla cui produzione l’autore si è più volte ispirato, da I bostoniani a Gli europei, da Quel che resta del giorno a Camera con vista e Casa Howard), ai contemporanei, che hanno invece avuto, come Cameron, l’opportunità di presenziare sul set e al montaggio. Ivory ha affermato di avere un grande rispetto per le opere cui sceglie di ispirarsi, oltre che un rapporto di reciproca fiducia con i rispettivi autori, ma le sue parole hanno nel contempo rivelato una profonda consapevolezza delle proprie scelte e un forte desiderio di autonomia creativa: dimostrazione ne è stato il rifiuto di assecondare la richiesta di Cameron, il quale avrebbe voluto spostare all’inizio l’ultima scena del film, trasformando così tutto il racconto in un flashback.
Il regista ha inoltre sottolineato come nel suo rapporto con la scrittura un ruolo fondamentale sia giocato dalla sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala, con cui lavora fin dal suo primo film di finzione, Il capofamiglia (1963), tratto da un romanzo della stessa Jhabvala. A quel periodo risale anche l’inizio della collaborazione con Ismail Merchant (oggi defunto), co-fondatore della Mechant Ivory, casa di produzione ma soprattutto eccezionale laboratorio creativo, specchio di un modo di fare cinema fondato sulla cooperazione e sulla sinergia di talenti e professionalità diverse.
Il lavoro di squadra costituisce davvero un aspetto fondamentale del modo di lavorare di Ivory, come ha spiegato egli stesso, sollecitato dalle domande di un pubblico curioso di conoscere i suoi rapporti con i soggetti coinvolti nelle diverse fasi di realizzazione di un film. Così ad una domanda sulle sue relazioni con il reparto costumi, egli ha ammesso di non sapere nulla in materia, se non ciò che riguarda il prodotto finale e la sua pertinenza con la messa in scena: ai costume designers, sempre i medesimi nel corso della sua carriera, il regista lascia la massima autonomia, così come agli attori, il rapporto con i quali è basato su una piena fiducia nella loro professionalità. Ivory ha infatti sostenuto di ignorare come essi si preparino ad impersonare i loro ruoli, ma di essere in ogni caso certo che ognuno lo faccia con tutta la serietà necessaria, non ultimo lo straordinario Anthony Hopkins, più volte chiamato a lavorare con lui. Il regista si è poi detto del tutto aperto, in sede di ripresa, ad ascoltare i consigli degli interpreti e disposto a lasciare loro, quando è possibile, un buon margine di improvvisazione. L’improvvisazione entra in gioco, secondo l’autore, anche in relazione alla location: la sua scelta di non girare in teatri di posa lascia sempre quel margine di indeterminatezza dato dal luogo scelto per le riprese, cui lo script e la messa in scena dovranno in parte adattarsi, ancora una volta grazie alla coordinazione del lavoro non solo dello stesso regista e della sceneggiatrice, ma anche degli attori, del cameraman, del tecnico del suono.
L’importanza dell’integrazione delle competenze, il rispetto e la fiducia per i collaboratori sono dunque alla base del lavoro di Ivory: egli dimostra di credere pienamente in un cinema frutto di un lavoro di squadra, punto di incontro tra diverse professionalità ognuna delle quali è indispensabile per la riuscita del prodotto finale. Un atteggiamento di stampo tipicamente americano, se non addirittura pienamente hollywoodiano, che contraddice in parte la convinzione, più volte ribadita da Porro, che Ivory sia un autore intimamente europeo, o meglio inglese. Certo, come ha ammesso lo stesso regista, i suoi interessi e la sua formazione culturale sono molto vicini al Vecchio Continente, tuttavia da una parte egli ha rivendicato con forza la propria origine americana, dall’altra ha spiegato che la sua identità va ben oltre i confini geografici: lo testimoniano la sua formazione, che lo ha visto muovere i primi passi nel cinema in India (dove ha conosciuto anche il suo più grande maestro, Satyajit Ray), e la sua carriera successiva, durante la quale si è trovato a effettuare riprese nei luoghi più disparati del mondo, ultimi dei quali sono la Cina (per La contessa bianca, del 2005), e l’affascinante e quasi mitica America Latina che fa da sfondo a Quella sera dorata.
Anch’essi in bilico tra Inghilterra e Stati Uniti sono i tre progetti cui il prolifico autore sta lavorando in questo momento: sul “fronte europeo” un adattamento per la tv di Il carteggio Aspern di Henry James e uno del Riccardo II di Shakespeare, su quello americano un film ambientato nello Iowa contemporaneo. All’età di 82 anni (che, inutile dirlo, non dimostra affatto) Ivory sembra dunque non aver intenzione di passare il testimone, continuando a guidarci in un emozionante viaggio a cavallo tra spazio e tempo.


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