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Lullaby to my father (DVD)

Pubblicato il 5 novembre 2012 da Alessandro Izzi


Lullaby to my father (DVD)

Aveva ragione Serge Toubiana, in un bel libro di qualche anno fa, nel dire che la metafora che meglio racchiude il senso ultimo di tutto il cinema di Amos Gitai è quella del cantiere.
Il cantiere non è lo spazio astratto e asettico del laboratorio scientifico nel quale il più delle volte ci si limita a sperimentare senza sapere bene davvero che direzione prenderà il frutto del nostro lavoro. Né si avvicina troppo alla dimensione familiare della bottega artigiana in cui ogni componente ha la sua parte nella produzione mentre uno sguardo dall’alto sovraintende e firma.
Il cantiere è, piuttosto, lo spazio della polvere e dei mattoni, del lavoro bruto al servizio di un’idea e della fatica che produce sudore oltre che cose che potranno poi essere usate.
Il set per Gitai è cantiere di produzione: letteralmente un luogo in cui le immagini si producono come mattoni che vanno poi disposti secondo il disegno dell’architetto.
Per questo le immagini di Gitai conservano al loro interno quel non so che di materico in cui indovini il lavoro del direttore della fotografia e quello del fonico, in cui senti le venature dell’apporto degli attori e la sporcizia pulita della polvere alzata durante il processo di edificazione della casa.
Ogni film, per Gitai, è parte integrante di un processo di costruzione e modulazione. È, soprattutto, tentativo di definizione di uno spazio che resta perennemente ambiguo: prima era vuoto, adesso diventa abitabile, gestibile, praticabile. Ma il gesto registico di Gitai combatte anche con il senso di difficile definizione di uno spazio di cui bisogna appropriarsi, talvolta, ci dice l’autore israeliano, col dolore e l’impressione di star strappando ad altri il loro diritto su quello spazio che vuoto non era, forse, a tutta prima.
Così il cantiere si mischia all’impressione di frontiera e la politica interna si confonde con quella estera così come il privato si sporca delle esigenze del pubblico.
Lullaby to my father riporta questi movimenti sempre presenti nel suo cinema ad un grado di consapevolezza vertiginoso. La storia è privata, intima, piccola, ma al tempo stesso si allarga nel contesto della Storia, deborda nella persecuzione degli ebrei, prima, e nel sangue della fondazione di Israele, poi. E riflette sulla sua dimensione di cantiere metaforico mettendo in scena un cantiere che è quello nel quale il padre, architetto grandissimo, costruiva le sue case, ma anche quello, più largo, nel quale Israele cercava la sua identità.
La storia del film è, quindi, quella di Munio Weinraub (Gitai è il nome ebraico adottato anni dopo) che a diciotto anni arriva al Bauhaus col sogno in tasca di diventare architetto e che, dopo poco, lo vede volar via insieme con le speranze di potersi dire ebreo nell’Europa nazista. A lui che desiderava solo di costruire case funzionali secondo i dettami di una scuola consapevole che un edificio disegnato e costruito male può uccidere le persone come un colpo d’ascia, il regime impedisce di costruire e disegnare. Modulare spazi era, infatti, proibito a chi, come lui ebreo, non aveva diritto di rivendicare a sé alcuna proprietà, fosse anche uno spazio vuoto.
Fuggito fortunosamente in Palestina, Munio diventa architetto dell’utopia israeliana dei kibbutz. Progetta spazi in cerca di un’identità nazionale, chiedendosi, ad ogni passo, cosa voglia dire «casa» e «ebreo» in una strisca di terra che è tutta frontiera ed è tutta in guerra. Da lì fa appena in tempo a vedere il sogno tramontare nell’edificazione di uno stato che lascia indietro molte delle premesse sulla quali diceva di volersi costruire. E con l’ideale muore anche uno stile architettonico funzionale ed identitario.
Raccontare la storia di Munio, per Gitai equivale a raccontare la storia del suo paese e quella della sua gente. Significa parlare di nazismo e di sionismo. Significa mettere il dito su ferite ancora aperte che stentano a cicatrizzarsi.
Con grande sapienza architettonica, Gitai concepisce il suo film come fosse il progetto di una casa. Ci sono sequenze che sono muri portanti ed altre nelle quali potresti quasi aprire una finestra che dà dritta sulla Storia. Ci sono porte che scivolano nel racconto e corridoi che uniscono momenti e pensieri lontani.
Il regista mette la sua macchina nelle case progettate da Munio e lascia che lo sguardo si abbeveri dello spazio con la stessa ansia di confessione di una nazione confusa tra l’incubo del passato e l’incertezza del presente.
Il linguaggio è, come nelle intenzioni dichiarate, minimalista e fattuale. Una lezione di documentario che si farà a lungo ricordare.

La qualità audio-video

Il documentario, come da tradizione, mette insieme immagini desunte dalle fonti più disparate. Il DVD riesce a tener dietro l’alternanza tra scene girate in alta definizione ed altre riprese con mezzi e strumenti più precari con invidiabile precisione. Nel complesso, quindi, la visione scorre piacevole sempre.
Ottimo l’audio originale e multilingue (francese, tedesco, ebraico) 2.0 con sottotitoli opzionabili.

Extra

Un bel libretto con un testo di Gitai sul film. Vale la pena leggerlo come manifesto e proclama di intenzioni da parte di un regista in cerca disperata di onestà umana ed intellettuale.


(Lullaby to my father); Regia: Amos Gitai; interpreti: Yael Abecassis, Theo Ballmer, Keren Gitai, Astrid Leutwyler, Paula Hedvall, Hanna Schygulla, Jeanne Moreau, Amos Gitai; distribuzione dvd: Ripley Home Video;
formato video: 1.78:1 - 16/9; audio: originale (Digital 2.0); sottotitoli: italiano

Extra: 1) Booklet interno con un testo di Amos Gitai


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