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Incontro con Mike Leigh

Pubblicato il 15 ottobre 2014 da Antonio Napolitano


Incontro con Mike Leigh

Mike Leigh è un regista inglese, degno rappresentante di quel cinema europeo che a New York è molto apprezzato e rispettato. Ospite al Lincoln Center per il New York Film Festival, Leigh ha tenuto un’interessante masterclass a 360 gradi sul cinema e sul suo lavoro di autore.

Come nascono le sue sceneggiature? Come sceglie quali sono le storie da raccontare?

La vera domanda dovrebbe essere “come si fa a scegliere quali storie non raccontare?” Ogni film è un viaggio alla scoperta della storia che stai per raccontare. Alcuni film che ho fatto in passato sono stati ispirati da mie esperienze dirette. Ad esempio Segreti e bugie è nato grazie alle storie accadute ad alcune persone vicine alla mia famiglia che avevano avuto delle adozioni. Oppure nel caso di Il segreto di Vera Drake, dato che non sono giovanissimo, la mia età mi ha fatto conoscere l’Inghilterra prima della legalizzazione dell’aborto nel 1967, mi ricordo gli aborti clandestini, le manifestazioni degli anti-abortisti ed ho sempre voluto fare un film su questo argomento. Opero in maniera istintiva ed empirica, ma in realtà quando inizio a lavorare su un progetto e a dargli forma mi viene sempre da farmi le stesse domande: “Di nuovo questo tema? Ma l’ho già fatto questo film!” La verità è che ci sono temi ricorrenti che mi assillano e per questo si ripetono nei miei film ma, attraverso il mio stile idiosincratico, cerco di fare in modo che ogni mio film assuma forme diverse.

È molto importante il suo lavoro con gli attori, con i suoi personaggi. Molti hanno letto o sentito del suo “metodo di improvvisazione” e di come i suoi attori sono chiamati a contribuire alla costruzione del personaggio grazie al vissuto e alle esperienze del reale.

Una storia è fatta di persone e tutte le persone sono interessanti. Il cinema è un lavoro per dei “personaggi attori” intelligenti, persone particolarmente brillanti e sensibili con le antenne puntate verso il mondo che li circonda. Queste persone non sono attori per ragioni narcisistiche, ma perché hanno una reale necessità di rappresentare il mondo e coloro che lo vivono. Questo è ciò che intendo quando parlo di “personaggi attori”, persone che hanno le competenze e le capacità di diventare qualsiasi tipo di persona, di qualsiasi background o epoca, e il mio lavoro di drammaturgo è quello di galvanizzare, stimolare e creare un contesto in cui i miei attori possano esplorare e creare insieme a me dei personaggi che siano rappresentazioni tridimensionali di persone reali. A proposito del “metodo di improvvisazione”, è una questione molto pratica. Io faccio delle lunghe sedute “face-to-face” con i miei attori singolarmente e parlo con loro delle infinite possibilità che esistono per i loro personaggi, finchè io non capisco quali di queste possano funzionare veramente per il film. A quel punto costruisco i personaggi che non sono puramente casuali e funzionali alla personalità dell’attore, ma sono personaggi costruiti con finalità drammaturgiche. Quando l’attore recita è dentro il suo personaggio. Ma per poter costruire il proprio personaggio, l’attore deve uscirne fuori e credere che questa persona esista realmente e che non sia egli stesso. Molto del lavoro che faccio in queste sessioni di improvvisazione consiste nel far sì che l’attore entri nel suo personaggio per dei lunghi periodi di tempo, vivendo diverse esperienze. Se l’attore invece non esce dal personaggio, io non posso lavorare con lui, perché il punto di vista dell’attore rimane troppo soggettivo. Gli attori devono credere nell’esistenza di un personaggio in un mondo che è stato creato appositamente per questo, e non semplicemente fare delle cose perché stanno interpretando un personaggio. Questo tipo di improvvisazione è una disciplina che libera la creatività.

È molto presente nella sala montaggio?

È indiscutibile che un film viene realizzato nella sala montaggio. Chiunque non la pensi così non capisce nulla di cinema! Girare un film è in fondo aggregare, mettere insieme del materiale grezzo accumulato sulla base di un’idea che porti avanti, ma la forma vera e propria si crea al montaggio. L’obiettivo è arrivarci con il maggior numero di scelte possibili. Un buon montatore, come anche un buon direttore della fotografia o un buon attore, è qualcuno che si prende la responsabilità e apporta una sua visione al progetto, anche se poi chiaramente la visione finale e l’ultima parola spettano al regista. In questo caso a me! Tutte le persone con cui faccio i film sono dei veri e propri collaboratori. All’inizio del film vado e vengo dalla sala montaggio, ma quando ci avviciniamo al montato finale sono fisso in sala. Anche perché quello è un momento appagante anche per un altro aspetto: si lavora con il compositore, che è un’altra fase di sperimentazione e di profonda creatività che porterà alla versione finale del film.

Con il suo ultimo film, Mr Turner, per la prima volta ha lavorato con il digitale, che come la pittura permette di giocare con i colori. Nel film infatti c’è una prospettiva, un dialogo che unisce la pittura al cinema. Qual è la sua opinione nei confronti della transizione delle arti e del futuro del cinema?

Quando “giochi” con Photoshop effettivamente è come se dipingessi delle immagini. Abbiamo usato tutto il prospetto di tecniche legate alla post-produzione per modificare ed esaltare le immagini in maniera quasi magica per un film del genere. Ma ciò non vuol dire che non abbiamo dovuto fare delle scelte visive sofisticate e inoltre per fare questo film abbiamo passato molto tempo a studiare tutte le opere di Turner, le sue centinaia di tavole di colori. Turner era molto interessato al colore e ai suoi effetti sulle immagini. È un artista di valore internazionale. Un visionario come pochi. E a proposito di cinema, io non guardo alle epoche. Mi piacciono i registi di tutte le generazioni. Siamo tutti uomini e donne del XX secolo che abbiamo creduto nella pellicola innalzando la bandiera e sostenendo giustamente le cause della pellicola senza arrendersi all’avvento del digitale. Questa è una posizione molto sana e giusta che mi ha formato. Adesso però viviamo nel XXI secolo e le nuove tecnologie non sono un banale kit che compri al supermercato, ma sono degli strumenti sofisticati che esperti hanno studiato e sviluppato per anni. Una volta che le scopri capisci quanto siano emozionanti e intense e che per farlo non devi comprometterti con il passato. Dibattere tra pellicola e digitale è una posizione accademica. La pellicola resta la pellicola. Ma con le nuove tecnologie ci dobbiamo liberare dai pregiudizi e godere dei benefici del mondo che va avanti. Nel caso di “Mr. Turner” quando ci ponevamo il dubbio se era il caso di usare o meno il digitale, ci siamo chiesti cosa avrebbe fatto lui. E la risposta è stata semplice. Lui era affascinato dalle nuove tecnologie. Il cinema digitale è uno strumento emozionante da usare. Quello che si può e si deve fare, è salvaguardare la pellicola e le vecchie opere. Ma una cosa non è assolutamente in contrasto con l’altra.


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