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Öndög - Concorso

Pubblicato il 10 febbraio 2019 da Gherardo Ugolini

VOTO:

Öndög - Concorso

Il regista e sceneggiatore cinese Wang Quan’an è un ospite abituale del festival di Berlino: vi ha presentato nel 2002 il suo primo lungometraggio, Yue shi (Eclissi lunare), ha vinto l’Orso d’oro nel 2007 con Tuya de hun shi (Il matrimonio di Tuya), l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura nel 2010 con Tuan yuan (Apart together), ed è stato membro della giuria per l’edizione del 2017. È un esponente di primissimo piano della cinematografia cinese e tale si conferma con la pellicola di quest’anno, Öndög, letteralmente “uovo”, ma qui da intendere come “uovo di dinosauro” con una significazione simbolica che si svela nel corso della vicenda. Protagonista assoluto è il paesaggio: la steppa mongola, selvaggia e desolata, immensa e silenziosa, battuta dal vento e dal gelo. Le prime sequenze attraversano chilometri e chilometri di questa distesa pianeggiante, dove si vedono campi d’erba secca, greggi di pecore e cavalli indisciplinati. A scuotere lo spettatore è la vista, tra gli arbusti gelati, di un corpo femminile nudo, il cadavere di una donna distesa a pancia in giù. Chi sarà mai questa donna assassinata? Chi l’ha uccisa? Per quale movente?
La vicenda parrebbe avere le movenze di una detective story, con l’arrivo della polizia e l’inizio delle indagini. Ma ben presto la pellicola piega verso altre dimensioni che hanno piuttosto il sapore dell’apologo esistenzialista. Al centro sono i dialoghi (per la verità assai stringati) tra i due personaggi principali: da una parte la giovane e inesperta recluta (Norovsambuu Batmunkh) che viene messa a guardia del corpo ritrovato con il compito di sincerarsi che nessuno modifichi la scena del delitto; dall’altra la matura mandriana (Dulamjav Enkhtaivan) che abita nei pressi, si muove a dorso di un dromedario, conosce bene l’ambiente e le sue insidie e si rivela subito preziosa nell’allontanare i lupi famelici a colpi di fucile. Tra il militare e la donna, di cui non viene fatto mai il nome ma che i compaesani chiamano scherzosamente “dinosauro” per il suo carattere grezzo e scontroso, nasce una sintonia fatta di poche parole e di improvvisi contatti sessuali nei quali non è chiara la misura del coinvolgimento emotivo. La rimozione del cadavere da parte dell’autorità per la necessaria autopsia pone apparentemente fine al loro sodalizio.
Öndög è un film con aspetti senz’altro apprezzabili. Magistrali le inquadrature della steppa che focalizzano con icastico realismo la crudeltà della natura, ivi comprese le interminabili sequenze che documentano lo sventramento di una pecora e il parto di una mucca. Ma il film di Wang Quan’an non va mai al di là di un pregevole esercizio stilistico e gli interessanti spunti di taglio etnologico sul modo di vivere nell’entroterra mongolo rimangono sterili. Anche la figura della mandriana, con la sua vita autarchica e selvaggia, che non si lascia controllare da nessuno, rimane abbozzata a uno stadio embrionale senza sviluppi significativi. Nulla a che vedere, per esempio, con il precedente Matrimonio di Tuya che pure era incorniciato nei medesi paesaggi.
Nella conferenza stampa seguita alla proiezione il regista cinese ha dichiarato di aver girato il film senza basarsi su una sceneggiatura scritta e di aver voluto parlare di «vita, morte, amore», nonché del «senso del tempo proprio della gente che vive in quei luoghi della Mongolia, così diverso da quello cui siamo abituati». Ma la pellicola non è all’altezza di tale ambiziosi propositi. Per costruire un apologo esistenzialista non basta certo mettere in bocca ai personaggi frasi banali come «ciò che vediamo con gli occhi umani non è sempre reale», né giocare su simbolismi artefatti come quello dell’uovo di dinosauro che la mandriana regala al suo amante e che vorrebbe rappresentare il grande ciclo a della natura alludendo alla futura scomparsa degli uomini destinati a estinguersi come è accaduto ai dinosauri.


CAST & CREDITS

(Öndög); Regia: Wang Quan’an; sceneggiatura: Wang Quan’an; fotografia: Aymerick Pilarski; montaggio: Yang Wenjian; musica: Wang Xuliang; costumi: Wurichaihu; interpreti: Dulamjav Enkhtaivan (Hirtin), Aorigeletu (Hirte), Norovsambuu Batmunkh (Junger Polizist), Gangtemuer Arild (Polizeichef); produzione: New Theatre Union, Ulan-Bator, Mongolei; distribuzione: Arclight Films, Beverly Hills, USA; origine: Mongolia, 2019; durata: 100’.


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