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Paul Schrader (Conferenza stampa)

Pubblicato il 24 luglio 2009 da Nicola Lazzerotti


Paul Schrader (Conferenza stampa)

Durante la conferenza stampa di Paul Schrader, in occasione della consegna del Premio all’Opera d’Autore conferito al grande regista e sceneggiatore americano dal Premio Amidei, il professor Roy Menarini – che in questa circostanza ha curato il volume monografico “La Luce della Scrittura” dedicato alla carriera artistica di Schrader e anche alla sua esperienza di critico e studioso cinematografico – ha fatto da mediatore alle domande della stampa presente nella Sala del Conte del Castello di Gorizia.

Come vive le tre diverse professioni di critico, sceneggiatore, regista che scandiscono il suo percorso artistico? Per lei sono la stessa cosa?

P.S. Io sono nato come giornalista, e del resto lo sono ancora, purtroppo nell’industria cinematografica non si può essere entrambi.
Non è tanto il fatto che io volessi fama e prestigio derivatomi dal mio lavoro, ma il desiderio di creare storie a soggetto che corrispondeva meglio alle mie prerogative psicologiche. Mi riferisco al periodo di Taxi Driver in cui ho creato e descritto questo personaggio che corrispondeva all’animale che sentivo in me, dovevo scriverlo ed è così che diventai uno sceneggiatore.

Cosa pensa di questa rivoluzione della serialità televisiva che si basa profondamente sul valore della sceneggiatura e della scrittura, considerando lo scontro tra scrittori e producers a Hollywood dagli anni ’70 in poi. Ha immaginato se stesso come ideatore di serie?

P.S. Il cinema come lo conosciamo si può catalogare come la forma d’arte del 20° secolo. Va detto inoltre che il contenuto drammatico dei film è emigrato nelle tv via cavo, causando quindi uno spostamento d’interesse dal cinema alla televisione. Televisione che diventa una vera e propria palestra del cinema per i giovani sceneggiatori. Mi è capitato di pensare alla televisione, anche se sono riuscito a lavorare nel cinema tradizionale. Mi chiedo però per quanto ancora sarò in grado di farlo e dunque nel futuro non escludo la televisione.

Tra gli artisti contemporanei lei ha citato P.T. Anderson e S. Jonze come registi che le piacciono molto, cosa le piace del loro cinema? La rappresentazione o la scrittura e la complessità del dramma?

P.S. Nel caso di Anderson, Jonze e gli altri io apprezzo naturalmente la loro originalità e il loro adeguamento alle continue trasformazioni del cinema. Quando io sono entrato nel cinema, tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70, c’era una crisi di contenuti, e la mia generazione è riuscita a dare delle risposte a questa crisi. Ora però il cinema sta subendo una crisi ancora più profonda.
La forma è la grande crisi del cinema moderno, crisi che ci porta chiedere cosa sia un film, poiché con le nuove tecnologie sono queste ha dettare le regole. Queste nuove tecnologie ci permettono di fare cose mai viste prima, creando un nuovo rapporto tra chi è partecipe di un’esperienza audiovisiva e l’oggetto visto. Il vecchio modo di vedere film fa parte del 20° secolo. Non voglio però essere catalogato come una persona che ha nostalgia del passato. Credo anzi che ci sia un intero nuovo mondo che si sta aprendo di fronte ai nostri occhi, ma non lo conosciamo ancora. Quando ho cominciato io ritenevo che fossero gli eventi, i fatti, a caratterizzare un film, oggi penso sia la tecnologia che ridefinisce il modo in cui si pensa e si scrive un film.

Lei ha scritto un testo molto interessante sullo stile trascendentale nel cinema di Ozu, Bresson e Dreyer, autori che sono stati un fondamentale punto di riferimento nel suo approccio al cinema, prima come studente, poi come autore. Ci sono secondo lei dei registi che ancora oggi perseguono la medesima ricerca? O comunque pensa che sia possibile ancora oggi uno stile trascendentale nel cinema?

P.S. Questo tipo di registi sono dei “fenomeni” molto rari, lo erano allora e lo sono tutt’oggi, e questo perché un bravo regista tende a definire una certa spiritualità, ma nel voler esprimere tale spiritualità deve girare la schiena a quello che il film può dare come forma di arte. Cosa ha il cinema di caratteristico? Il movimento – che poi è il motivo per cui nell’industria cinematografica americana si chiamano “movies” - e l’empatia con lo s pettatore.
Nel trasferire la propria spiritualità un bravo regista di solito blocca il movimento e l’empatia, proprio i due cardini singolari del cinema stesso. È in questo senso che il regista diventa anti-commerciale, ed è una minoranza di persone che si avventura in questo territorio.
Io ho scritto di questi registi proprio in seguito ai miei studi religiosi, che mi hanno reso possibile comprendere meglio certe tematiche. Anche se quello della spiritualità è un terreno in cui io personalmente non mi sono mai avventurato. Ritengo di non avere né il talento né il rigore necessari per poterlo fare.
Ci sono autori che si sono avventurati in questa strada, autori come Sokurov, e poi ci sono dei film che hanno questi contenuti come Into The Silence. Sono comunque film molto rari.

Tornando indietro agli anni ’70, quando il vostro gruppo si riuniva (De Palma, Lucas, Scorsese ecc.ndr) in qualche festa ed eravate insieme, eravate consapevoli di quello che sarebbe stato il vostro lavoro e il vostro contributo al cinema?

P.S. Sì e no, in realtà noi eravamo la prima generazione che usciva dalle scuole di cinema, ed eravamo consci di essere perfettamente a conoscenza di quella che era la storia del cinema, di quello che era il ruolo del cinema e come il nostro lavoro avrebbe potuto cambiarlo. Da questo punto di vista eravamo molto consapevoli. Volevamo fare cose nuove, rompere le regole tradizionali e quindi creare un nuovo cinema e un nuovo modo di fare cinema.
Quello che non sapevamo e di cui non eravamo coscienti, è che stavamo vivendo un tempo unico e irripetibile. Vivevamo nel bel mezzo di profondi cambiamenti sociali e culturali, la rivoluzione sessuale, la sperimentazione della droga, la lotta per i diritti civili. Un periodo quindi eccezionale che si prestava benissimo a chi voleva raccontare delle storie perché c’erano appunto tante nuove storie da raccontare e che la gente voleva sentire. Quello che non comprendevamo era che quest’epoca era destinata a finire.

Quali sono i sui progetti per il futuro?

I film che ho fatto nella mia carriera, iniziando 30 anni fa, sono film che non si possono più fare al giorno d’oggi. Direi che tutto il cinema indipendente statunitense ormai sta morendo. Io cerco di adattarmi a questa situazione, ho tre sceneggiature pronte, la prima, già venduta, di carattere commerciale, una l’ho scritta per Bollywood e sto cercando di venderla a Mumbay, mentre l’ultima è il tentativo di fare una film d’azione in Messico. Io cerco così di adattarmi ai grandi cambiamenti di natura economica e finanziaria che stanno investendo il cinema di oggi. E forse il futuro sarà proprio quello di lavorare nelle serie televisive.


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