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Raccontare il giornalismo - Il caso Spotlight e The Newsroom

Pubblicato il 26 gennaio 2016 da Vera Viselli


Raccontare il giornalismo - Il caso Spotlight e The Newsroom

Mentre in Italia sono alquanto scemate le polemiche sulla fuga di notizie in Vaticano dello scorso novembre, arriva sul grande schermo Il caso Spotlight, film diretto da Tom McCarthy che racconta l’ormai nota indagine sui preti pedofili di Boston iniziata nel 2001 dalla squadra giornalistica Spolight, per l’appunto, del Boston Globe (candidato agli Oscar 2016 come miglior film, miglior regia, miglior attore non protagonista per Mark Ruffalo, miglior attrice non protagonista per Rachel McAdams, miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio). Dopo il documentario della BBC del 2006 Sex Crimes and the Vatican, la tematica abusi e prelati torna da coprotagonista insieme ad un’analisi giornalistica in una sorta di “saga di espansione” (come l’ha definita Anthony Lane) ritmata con estrema cura.
Se con la serie The Newsroom (HBO, 3 stagioni, 2012-2014) Aaron Sorkin (noto per The West Wing) ci aveva mostrato il dietro le quinte di una redazione giornalistica dei giorni nostri - serie, questa, con cui voleva idealmente completare la sua idea di "trilogia del dietro le quinte", dopo Sports Night e Studio 60 on the Sunset Strip - attraverso le vicende personali e lavorative dell’anchorman del notiziario News Night, dicendoci che “non basta aver ragione: tutti gli altri devono avere torto” (un po’ sulla scia energica e raffinata di Dentro la notizia di J. L. Brooks), il film di McCarthy tratta la questione in un modo meno interattivo e più investigativo. In un’epoca in cui l’uso di Internet quale strumento-base per la raccolta di informazioni era ancora in fase iniziale se non embrionale, i membri di Spotlight si coordinano come una vera e propria squadra di detective su un’indagine che si protrae per mesi e mesi: passano giorni e settimane in tribunale a cercare di consultare giudici, avvocati ed atti pubblici (o quasi) e a cercare, porta a porta (sì, ricordiamo tutti Erin Brokovich) le vittime degli abusi, mentre il caporedattore - un ottimo Michael Keaton - si ritrova ad affrontare contemporaneamente la coscienza giornalistica e quella cattolica, passando attraverso l’errore (giornalistico) di chi ha prima colpevolmente accantonato e centinaia di errori criminali (cattolici) - un prete arriva ad affermare: “li molestavo, ma senza trarne piacere” - che riguardano un ormai consolidato impianto clericale di omissione dei fatti.
Se la ricerca della verità passa attraverso le scrivanie di entrambi le redazioni (quella di Spotlight come quella di News Night) forse, per la prima volta, assistiamo ad una devozione così totale al lavoro da parte di Rezendes/Ruffalo che lo porta a mettere in secondo piano gli eventi dell’11 settembre per poter correre in tribunale a visionare, per primo, dei documenti divenuti finalmente pubblici. Una corsa vecchio stile, quasi fossimo davanti ad un film degli anni ’40 o ’50, che vuole riassumersi nella paura dello sguardo di Ruffalo rivolto verso un coro giovanile che canta Silent Night in una chiesa. E’ probabilmente la stessa paura post-11 settembre, la sua, quella che dice “saranno davvero al sicuro, questi ragazzi?”. Anche perché, come afferma l’avvocato interpretato da Stanley Tucci, “se ci vuole un paese per allevare un bambino, ci vuole un paese per abusarne”.


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