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Ritratti - Rogerio Sganzerla

Pubblicato il 27 dicembre 2004 da Simone Arcagni


Ritratti - Rogerio Sganzerla

Tutto ha inizio nel 1995 quando Giusti e Melani organizzano per il Festival di Torino la grande retrospettiva sul cinema brasiliano. In Italia si può quindi vedere un film di Rogério Sganzerla, O Bandido Da Luz Vermelha (1968). Da quel seme gettato nasce l’idea dell’attuale co-direttore Roberto Turigliatto, di approfondire la conoscenza del cinema del regista brasiliano colpevolmente messo all’oblio in Europa. Nel 2002 lo conosce personalmente mentre organizza la retrospettiva Julio Bressane e inizia a prendere corpo il progetto. La morte prematura avvenuta nel gennaio di quest’anno ha fermato i lavori, ma ha reso doveroso un omaggio. E così questa edizione del festival ha presentato ben sette lungometraggi e tre corti.
L’impatto è di quelli che lascia il segno: il cinema di Sganzerla non lascia indifferenti, amato incondizionatamente da Bressane, fu osteggiato con livore quasi crudele dai rappresentanti del Cinema Novo (di cui tra l’altro fu un estimatore quando era critico cinematografico tra il 1964 e il 1965), primo fra tutti Glauber Rocha. Il suo è un cinema dei corpi, dell’immaginario, della musica, della visione. Cultura alta e cultura bassa, realtà e finzione, citazioni colte e trash, fumetti e Joyce si incontrano nei suoi film, a creare un mosaico barocco e immaginifico, una sorta di realtà altra, decisamente e totalmente cinematografica. Il suo è un cinema d’autore dove la definizione è portata alle estreme conseguenze, dove il discorso personale, la poetica e l’urgenza espressiva si fanno tutt’uno con il discorso politico, l’osservazione sociale e la ricerca sul linguaggio cinematografico. Prendendo le mosse dal cinema di Welles, vera e propria ossessione di Sganzerla, a cui dedica una trilogia che riguarda il passaggio del regista in Brasile (Nem Tudo E’ Verdade del 1986, Tudo E’ Brasil del 1998, O Signo Do Caos del 2003), il nostro “scrive” decisamente i suoi film, portando all’esasperazione per esempio l’uso del piano-sequenza o della camera a mano, ma servendosi anche di un montaggio che rimanda alla poetica di Joyce: “Mi disse, con gesto affermativo, - ricorda Julio Bressane, suo amico e compagno nell’avventura della casa di produzione Belair - che il montaggio radicale di O Signo do Caos veniva da Joyce, quando gli domandai se provenisse da lì il seme di quel montaggio che a me sembrava e sembra il lavoro di un creatore già fuori da sé, che si avvicina alla prospettiva della prospettiva, retina della mosca, trasportando, spostando dallo schermo alla vita la vertigine divina...”
Ma se Welles è il nume tutelare, nel suo cinema fa capolino anche Godard, in quella osservazione del reale che diviene critica in tempo reale e autoriflessività, Resnais, Rivette. Come Antonioni (altro regista da lui amato), Sganzerla scansa la palude del (neo)realismo per avventurarsi in un discorso personale. “Rogério - secondo Ismail Xavier - conciliava l’idea della verità presente nel cinema moderno con qualcosa che alcuni definirebbero ‘formalismo’, ma che egli considerava un tratto essenziale della modernità, una sorta di cinema neobarocco”. Un cinema, il suo, che si scambia e oscilla tra reale e finzione (It’s All True affermava Welles, Nem Tudo E’ Verdade - Non tutto è vero - risponde Sganzerla) onirismo, realismo e (sur)realismo. La contiguità tra attore e realtà, tra città e scenografia è sfuggente e mai precisa, così come la contiguità tra reale e prodotto dei media, tra fumetto, cinema e vita vera. Il particolare lavoro sugli attori e sul paesaggio che danno vita a Copacabana Mon Amour (1970), l’allucinante thriller di O Abismu (1977), così caratterizzato dal blues psichedelico di Jimi Hendrix, sono tutti esempi di un cinema difficilmente riconducibile ad altri modelli, figlio di un’inventiva e di una cultura vivace e mai paga, di un cinema mai scontato... sguardo in continua dialettica con il mondo.

[dicembre 2004]


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