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Roma 2016 - Into the Inferno

Pubblicato il 16 ottobre 2016 da Alessandro Izzi

VOTO:

Roma 2016 - Into the Inferno

Di fronte alle esplosioni di magma di un vulcano, al vulcanologo non resta che fare un passo indietro, fissare la massa incandescente, seguire con lo sguardo i contorni del fuoco, quindi tenere gli occhi sulla cima del pennacchio di fumo, aspettando di vedere cadere i lapilli tenendosi pronti a schivarli se sono piccoli abbastanza.
Mai, per nessuna ragione, mettersi il vulcano alle spalle in cerca di una via di fuga. Mai coprirsi gli occhi con le mani e cercare protezione con le braccia.
Di fronte allo scatenarsi dell’impossibile, l’unica cosa che può salvarci la vita è continuare a guardare.
In fondo è questo il gesto e la sintesi di tutto il cinema di Herzog: non distogliere mai gli occhi, continuare piuttosto a filmare nella consapevolezza che è il cinema l’unica cosa che può frapporsi fra noi e la catastrofe e la narrazione l’unica cosa che possa tentare di disegnare costellazioni in un cielo altrimenti inutilmente affollato di stelle.
Il cinema del sommo regista monacense che è sempre stato, da questo punto di vista, un dito puntato verso gli estremi, non per questo è stato un gioco inutilmente pericoloso. Anche quando il regista si è messo a rischio in prima persona, andando a filmare la possibile esplosione di un’isola (accadeva in La Soufriere nei lontani anni ’70), la tentazione all’assoluto dell’immagine doveva scendere a compromessi con la materia e con l’istinto di sopravvivenza.
Nessuna ripresa viene eseguita se non nelle condizioni della massima sicurezza possibile stante le difficoltà obiettive di chi cerca di filmare l’incredibile. Ed ecco perché Herzog rimarca con convinzione serena il suo essere forse “il solo regista sano in un mondo di folli”. Perché gli è estraneo il gesto di filmare solo per la ricerca di belle immagini. La sua caccia all’invisibile si sposa con la semplicità di chi compie un mestiere amato, ma pur sempre una cosa che si fa con le mani, per portare a casa un risultato.
Così anche Into the Inferno, che già nel titolo racconta una discesa in un abisso che ci guarda mentre lo guardiamo, non è altro che l’ennesimo ritratto di un uomo che guarda per noi oltre, in quel mondo che altrimenti sfuggirebbe ad ogni sguardo.
Come nel Viandante sul mare di nebbia di Kaspar Friedrich, il cinema di Herzog si mette sempre alle spalle di qualcuno che guarda per farci percepire, vibrandone all’unisono, la vertigine dell’infinito.
Questa volta quel viandante è Clive Oppenheimer, un vulcanologo incontrato ai tempi di Incontri alla fine del mondo che si presta a fargli da Virgilio nei gironi infernali dei maggiori vulcani attivi e non del pianeta.
Ma come l’esplosione del magma si proietta nello spazio, pronta ad ingoiare ogni cosa, anche la macchina da presa di Herzog accetta la sfida di non limitare il suo sguardo alle mere masse infuocate, punto di non ritorno della nostra infinita piccolezza, ma di spingerlo anche verso i tanti modi con cui gli uomini si sono confrontati con il mistero cercando in qualche modo di addomesticarlo.
Eccoci allora di fronte a popolazioni indigene che riportano il vulcano e la paura che incute negli spazi rassicuranti di una cosmogonia che permetta loro di fare qualcosa per scongiurare la catastrofe imminente. Ed ecco i capovillaggi filosofi che hanno fissato gli occhi negli abissi e vi hanno visto lo stesso movimento delle acque, ma virato al rosso dell’apocalisse che arriverà quando il fuoco finalmente incontrerà il mare. Ed ecco ancora come il mito del vulcano diventa chiave di volta per comprendere le peculiarità della cultura islandese, esattamente come la sua energia sotterranea e spaventosa può diventare agile strumento per la propaganda come avviene nella Corea del Nord comunista.
A Herzog, in fondo, il vulcano in sé interessa relativamente poco. Più intrigante andare a vedere come l’uomo, piccolissima formica spazzata via dalla furia del fuoco come qualsiasi altra cosa, risponde costruendoci intorno e dentro i suoi miti e le sue narrative. Più importante vedere quanto la presenza del vulcano influenzi il nostro modo di essere come specie. Di qui il salto indietro millenario compiuto in Etiopia, dove cominciano ad affiorare i resti di quegli uomini che forse furono in qualche modo testimoni di quell’immensa eruzione che quasi portò alla nostra estinzione. E se a scavare nel deserto è un simpatico studioso californiano con il pensiero a Las Vegas, tanto di guadagnato per l’equilibrio emotivo dell’intera composizione.
Sta forse proprio in questo sguardo che sfida dei secoli il silenzio che si ravvisa il punto di contatto più vero di questo splendido Into the Inferno con un’altra opera meno conosciuta a fortunata di Herzog: Kalachakra.
Perché alla fine della proiezione resta nello spettatore il senso di instabilità sul quale abbiamo costruito l’illusione della nostra esistenza. Perché ci rendiamo conto, a fine film, di vivere sul fuoco in perenne movimento e sempre pronto a rompere la crosta. Perché prima dell’ultimo soffio del monaco su questo splendido disegno di colori, eccoci di fronte alla nostra bellissima e terribile impermanenza!


CAST & CREDITS

(Into The Inferno); Regia: Werner Herzog, Clive Oppenheimer; sceneggiatura: Werner Herzog, Clive Oppenheimer; fotografia: Peter Zeitlinger; montaggio: Joe Bini; produzione: Andre Singer, Lucki Stipetić; origine: UK, Austria, 2016; durata: 104’


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