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Roma 2016 - Land of the Little People

Pubblicato il 18 ottobre 2016 da Alessandro Izzi

VOTO:

Roma 2016 - Land of the Little People

Quale destino è riservato all’infanzia oggi in Israele? Come crescono bambini che mangiano pane e guerra tutti i giorni? Che valori consegna loro la generazione dei padri che agisce un conflitto che non sembra destinato a finire?
Sul crinale di questa infanzia continuamente negata cammina Land of the Little People, unico film israeliano presentato nella selezione ufficiale di questa edizione della Festa del cinema di Roma. Lo fa scegliendo la strada più difficile, quella che arriva dritta come un pugno nello stomaco dello spettatore.
È la strada del dramma a tinte forti, che non fa sconti a nessuno e che sceglie le linee guida di una storia esemplare pronta a scivolare dalla fiaba all’horror, capace di essere monito e di entrare a gamba tesa in un dibattito che non si può non immaginare infuocato.
Un racconto in cui i volti puliti dei bambini si sporcano del nero delle scelte degli adulti e in cui l’innocenza, se mai c’è stata in una terra irrorata di sangue, soccombe nella connivenza generale.
Comincia all’insegna dello spiazzamento, Land of the Little People. Ci mostra dei bambini in una terra selvaggia, tra alberi e terra polverosa, in mezzo alle rovine di uno scenario post apocalittico che fu un tempo (scopriremo poi) un campo militare. I ragazzi stanno cacciando con archi e frecce, come fossero su un’isola deserta, sembrano costretti a bastare a se stessi anche nella semplice ricerca del cibo, ma la preda che alla fine riescono a catturare non è per loro, bensì per una misteriosa entità che abita l’interno di un pozzo e che va tenuta buona con l’offerta di olocausti.
Sembra di essere dalle parti de Il signore delle mosche, ma questi bambini non vivono su un’isola deserta, non sono i sopravvissuti di un incidente aereo che li ha sottratti alle loro case e alla civiltà. Questi bambini, piuttosto, sono i nostri vicini di casa, sono quelli che vediamo giocare al parco e che sorridono se incontri i loro sguardi. Basta loro appena passare sotto le volte di un filo spinato che delimita i confini del vecchio edificio militare in disuso ed ecco che escono in una cittadina come tante, con le villette e schiera, i supermercati dove si possono mangiare hamburger e patatine e le scuole che sono chiuse adesso perché l’estate riempie di sole le giornate.
Questo passaggio tra due mondi, quello delle loro avventure e quello quotidiano, è il centro poetico di tutto il film. Qui, nel mondo sedicente civile, i bambini sono i più piccoli, i più dileggiati, gli oggetti di derisioni per i bulli di quartiere, lì sono invece cultori di un rito misterico e la loro preghiera tiene una belva confinata nel buio pozzo di un rimosso collettivo.
Ma la preghiera che rivolgono all’oscura divinità che popola il loro incubo peggiore è sempre la stessa: “mangia loro e non mangiare noi” che è più di una semplice formula. È piuttosto la dichiarazione di un sistema di valori per cui si aggredisce per non essere aggrediti, si fa la guerra nel tentativo di scongiurare quella che gli altri muoverebbero verso di noi.
Tra il qui e il lì, il misero filo spinato mangiato dalla ruggine non è mai vera demarcazione. Dentro e fuori si riflettono e si riconoscono. Il rito misterico di cui si fanno vati non è che la replica in chiave infantile di quel sistema di valori che gli adulti intorno a loro portano avanti. Tutti figli di soldati, del resto, (come è ovvio che sia in una nazione che ha la leva permanente e le richiamate alle armi sono all’ordine del giorno) questi bambini vivono sulla propria pelle la partenza dei genitori per il fronte di ogni ultima battaglia. Qualcuno, come l’unica bambina del gruppo, non li vede neanche ritornare perché morti in azione (ma da eroi, ricordano loro le madri rimaste a casa per leccare le ferite della famiglia distrutta).
Del resto i loro genitori amati sono per lo più assenti. Non attivano un dialogo fattivo con loro. Nella migliore delle ipotesi, quando escono di corsa per andare in un terreno che dovrebbe essere interdetto, si limitano a chiedere dove vadano e a raccomandarsi che tornino presto. Quasi non si accorgono dei loro problemi, della loro fatica a stare in un mondo dove i più grandi li maltrattano e dove ovunque si respira guerra, anche nei pigri pomeriggi, tra i rami degli alberi, nel sommesso frinire degli insetti.
Quando il loro terreno di caccia viene improvvisamente occupato da due soldati disertori che fuggono dal fronte, la reazione non può essere che il conflitto. Anche perché quei soldati, evitando la guerra, non rischiano la vita come i loro padri, non sono eroi come il padre della bambina che cova dentro tutto il suo dolore in ogni singolo fotogramma che la regia le concede.
Di qui comincia la discesa verso i gironi dell’horror più cupo che resta sempre dentro i confini di un realismo piano perché non ha bisogno di cercarsi un altro mondo per virarsi al nero dal momento che è già horror la vita quotidiana.
Lo sguardo del regista tiene su questa storia gli estremi inconciliabili della tragedia greca in cui ogni personaggio ha un suo punto di vista condivisibile pur nella deformazione che la guerra impone al mondo. E in ciascun personaggio sente un dramma che non riesce a sciogliersi in catarsi.
Lucido e disincantato, Land of the Little People chiude i conti del racconto ben attento a lasciarci inquieti e chiede con forza agli israeliani di porsi domande non tanto su che mondo stanno dando ai loro figli, ma soprattutto su con quali metri stanno loro insegnando a misurare a dare un senso a quello stesso mondo.
E ci lascia a convivere, nelle inquadrature finali, con la consapevolezza che quei bambini capaci di tanta mostruosità continuano a restare, malgrado tutto, sempre e solo dei bambini.


CAST & CREDITS

(Land of the Little People); Regia e sceneggiatura: Yaniv Berman; fotografia: Rami Katzav; montaggio: Oz Guttman, Ziv Karshen; musica: Gad Emile Zeitune; interpreti: Lior Rochman, Ido Kestler, Shimrit Turner, Maor Schwitzer, Ben Sela, Ofer Hayoun; produzione: Fresco Films, Noescapeteam, Royal Rat Productions; origine: Israele, 2016; durata: 83’


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