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Source Code (Conferenza stampa)

Pubblicato il 29 aprile 2011 da Marco Di Cesare


Source Code (Conferenza stampa)

Roma 06/04/2011. Al ’The Space Cinema Moderno’ la conclusione della proiezione dell’opera seconda di Duncan Jones è stata sottolineata da un applauso degli astanti (sinceramente un fatto che non accade spesso alle anteprime per la stampa, soprattutto all’infuori dei Festival), uno sfogo naturale di fronte a una pellicola spesso sorprendente e che, comunque, di certo merita attenzione. Tale ovazione va smorzandosi definitivamente solo all’ingresso in sala del regista britannico, già autore del sorprendente Moon, e della giovane star della Hollywood d’autore, Jake Gyllenhaal. 300 copie

Vorrei chiedere a Jake Gyllenhaal cosa farebbe lui se gli rimanesse un ultimo minuto di vita.

Jake Gyllenhaal. Probabilmente, se fosse adesso, invece di rispondere alla domanda cercherei di chiamare la mia famiglia, che in questo momento sta dormendo sodo, proverei a svegliarli e tenterei comunque di farmi una risata, perché credo che il modo migliore per uscire da qualsiasi situazione sia con un po’ di umorismo. Cercherei peraltro disperatamente di trovare un piatto di pasta pronto da mangiare prima di andarmene!

Avrei una domanda per Duncan Jones: i suoi due film ci restituiscono l’ossessione per due elementi, soprattutto il tempo e la claustrofobia, dove le cose non sono mai come sembrano in spazi molto angusti. E poi sia Moon che quest’ultima pellicola sono esempi della migliore fantascienza che abbiamo visto negli ultimi anni: come riesce a realizzare film così diversi dalla fantascienza cafona che viene generalmente prodotta ad Hollywood?

Duncan Jones. Jake mi sta suggerendo che questo è migliore perché c’è lui...! E, in effetti, avevo utilizzato anche la tecnologia del Source Code per mettere Jake nel corpo di Sam Rockwell in Moon!
In effetti quello che cerco di fare nei miei film è sempre di concentrarmi sui personaggi. Ovviamente a me piace molto la science fiction, quella migliore che ho letto o quella che ho visto nei film con i quali sono cresciuto: quella che si concentra sull’individuo e su come gli individui vengano influenzati dal mondo all’interno del quale si trovano; quindi non è conta tanto l’aspetto della tecnologia, quanto piuttosto come i personaggi affrontano le circostanze in cui si trovano, le quali magari dal nostro punto di vista possono sembrare aliene ed estranee, ma che poi in realtà sono connaturali a loro che vi si trovano dentro.
La claustrofobia è stata semplicemente risultato e conseguenza della necessità, per il fatto che avevamo solamente 5 milioni per realizzare Moon, cosa che mi ha costretto a tenere al minimo il cast; siccome poi non potevo permettermi di dipendere dal mutevole tempo metereologico inglese, abbiamo girato tutto all’interno degli studios. Per quello che riguarda quest’ultimo film credo che Jake abbia visto in Moon determinati aspetti che secondo lui si potevano adattare a Source Code e al mio modo di fare film: è lui che mi ha presentato la sceneggiatura; e io ho visto nel copione qualcosa che poteva essere utile per realizzare qualcosa di nuovo.

Vi sono stati dei cambiamenti rispetto al libro? E chi sono i vostri scrittori di fantascienza preferiti? Infine volevo chiedere a Jake Gyllenhaal quale è stata la più grande difficoltà nell’interpretare questo ruolo e se ha avuto incubi per molto tempo.

J.G. Per quello che mi riguarda non ho trovato nulla di particolarmente difficile in questa interpretazione: ovviamente già sapevo quello che avremmo dovuto affrontare, e sapevamo che l’aspetto legato alla ripetizione avrebbe avuto successo soltanto se gli avessimo apportato delle variazioni. Anzi devo dire che ho trovato molto divertente recitare in questo ruolo, in particolare quando mi trovavo all’interno della capsula, dove fondamentalmente Vera Farmiga non l’ho mai vista: di lei a mala pena sentivo la voce. Mi trovavo di fronte a uno schermo verde e per me è stato divertente, perché alla fine ho fatto ricorso a tutta la mia immaginazione e mi sono sentito tornare bambino, quando giochi facendo le voci. E l’aspirazione di un attore è proprio di utilizzare la creatività per cercare di dare vita a delle situazioni in cui gli altri rispondono come tu vorresti. La cosa forse più difficile è che in reltà abbiamo dovuto continuamente porci delle domande mentre lavoravamo e, soprattutto, una in particolare, man mano che procedevamo nella lavorazione: «Come reagirà il pubblico?».
D.J. La sceneggiatura è stata scritta da Ben Ripley, che aveva messo insieme, in maniera egregia, tutta una serie di idee relative alla science fiction: certe originali, mentre altre le avevo ritrovate in alcuni film, programmi televisivi o libri. Ma la cosa che mi ha attirato per realizzare il progetto è che, sebbene la fantascienza fosse il cuore del copione, in realtà il film era composto anche di azione, mistery, thriller, di una storia d’amore, di commedia: tutte cose che, messe insieme, per un regista rappresentano un sogno e una sfida per realizzare un qualcosa misto e variegato. D’altra parte Ben ha un’ottima conoscenza della science fiction, per cui le sue idee mantenevano un grande rispetto verso di essa. Per esempio c’è un programma televisivo che si intitola Quantum Leap con quel Scott Bakula che io sono poi riuscito ad avere per un cameo in Source Code, dove interpreta il padre di Colter: parla col figlio al telefono, di lui sentiamo soltanto la voce.

Jake è oramai abituato ai paradossi temporali, ai viaggi nel tempo, tra Donnie Darko, Prince of Persia e quest’ultimo Source Code: volevo sapere, vista questa sua esperienza, come si è rapportato al copione e alle differenze tra i vari personaggi da lui interpretati in queste pellicole.

J.G. Credo che la questione del tempo rappresenti un qualcosa di universale, offrendo di suo un’intrinseca tensione narrativa. Quindi è sicuramente di conforto per un attore sapere che esiste, all’interno di una scena, una tale tensione, un qualcosa che tu non devi cercare di accentuare ma che, invece, si trova già lì, come se fosse un sussidio, un amico. Donnie Darko l’ho fatto dieci anni fa e credo che in un certo senso rappresenti un po’ l’altro elemento, l’altro estremo, come una specie di chiusura di questo decennio. Per me ha rappresentato il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con tutte le stranezze che ciò comporta; invece Source Code ha simboleggiato la transizione dall’adolescenza all’età adulta, con tutti i compromessi che ciò porta con sé. L’unica differenza tra i due è che in Donnie Darko c’era un coniglio, mentre qui, anche se non c’è, questo animale in qualche maniera continua comunque a perseguitarmi, visto che Source Code è uscito questo week end negli Stati Uniti in contemporanea con Hop...!

In questa storia esiste un forte atteggiamento antimilitarista, poiché assistiamo a un uso del corpo umano e delle vite dei soldati: vorrei sapere se il regista aderisce a questa visione. Invece vorrei chiedere a Gyllenhaal come sceglie i ruoli in questo momento della sua carriera.

D.J. In realtà non l’ho inteso nel senso di un giudizio verso i militari, poiché comunque nutro rispetto per delle persone che ritengono di doversi impegnare per quella che considerano la protezione della gente; anzi devo dire che in Source Code forse abbiamo proprio il personaggio di Colter Stevens che la sua parte l’ha fatta, ha pagato il prezzo, ha dato il suo contributo alla patria e forse non gli è stato reso il dovuto ringranziamento. In un certo senso comunque io, proprio per natura e carattere, ho rispetto dei militari, perché la mia famiglia è divisa a metà: metà artisti e metà militari!
J.G. In realtà ho scelto il film per una miriade di ragioni diverse. Ogni volta che ho scelto di fare una pellicola, ogni volta che sono stato scelto, e tale scelta da parte mia è stata dettata dall’istinto, da quella sensazione che ti dice ’Lo devo fare!’, il film in questione ha avuto successo dal punto di vista creativo e, a volte, anche economico. Quando ho visto Moon, dopo i primi venti minuti, mi sono detto: «Non ha importanza come il film andrà a finire: devo lavorare con questa persona!».

La storia per certi versi echeggia Ubik di Philip Dick, scrittore portato al cinema tante volte, a volte bene, altre meno bene; tuttavia Duncan Jones sembra averne colto l’aspetto più sofisticato. Volevo sapere da entrambi il rapporto che hanno – sempre che l’abbiano – con i testi di Philip Dick e quali sono i loro film cult di fantascienza di riferimento, se ne hanno.

D.J. Per quando mi riguarda potrei parlare di sci-fi tutto il giorno! Devo dire che sono stato un lettore di Philip K. Dick e di James Ballard, per me due autori molto importanti proprio perché riescono a combinare una capacità di introspezione con quello che immaginano potrà essere il futuro, ma anche come questo futuro influenza le persone, come quest’ultime sopravvivono in ambienti talmente diversi.
J.G. Mi piace la fantascienza, ma non posso affermare di esserne un fan sfegatato. Comunque, per esempio, George Orwell è per me un autore di riferimento, anche se devo dire che quello che mi ha attirato in modo particolare in Source Code è stato l’aspetto psicologico, l’idea di stampo onirico riguardante la morte e la rinascita, un minuto dopo l’altro: forse, più che di science fiction, si potrebbe parlare di un’idea buddista. Mettendola in termini semplici quello che mi è piaciuto moltissimo è proprio la concezione di questa persona che, in termini metaforici, viene fatta continuamente saltare in aria, fintanto che non recepisce il messaggio.

Volevo chiedere a Jake se la lotta al terrorismo attraverso un sistema fantascientifico è quasi una resa dei conti per affermare che si tratta ormai di una cancrena per la nostra società. E poi, a dieci anni dall’11 settembre, da americano quali sensazioni prova?

J.G. Diciamo che per quello che riguarda la violenza, io la stragrande maggioranza delle volte la considero come assolutamente non necessaria. E nel corso della promozione di questo film mi sono state rivolte numerose domande sulla stessa scia di questa che lei mi ha fatto ora: per esempio cosa farei se potessi rivivere otto minuti della mia vita, cosa che, senza offendere alcun giornalista, trovo un po’ assurda, considerato tutto quello che sta succedendo in questo momento nel mondo. Semplicemente perché Source Code parla di un programma informatico che consente di tornare nel corpo di un’altra persona nei suoi ultimi otto minuti di vita, per sbloccare una situazione di catastrofe e non per rivivere quegli ultimi istanti. Quindi quello che posso dire è che mi augurerei fortemente che potessero esistere dei programmi informatici che consentissero di tornare indietro nel tempo, in uno di quegli aerei, in uno di quegli edifici, di potere entrare nell’impianto nucleare in Giappone, di potersi insinuare nel corpo di un leader politico (una persona molto più intelligente, molto più sveglia di me) per fermare quello che poi è invece successo. E questo non lo dico per fare pubblicità al film, ma perché ripensare a quei momenti è estremamente doloroso.

Volevo chiedere a Duncan se è vero che ha accettato di dirigere questo film nella speranza di farne poi uno suo con Jake e, se ciò avverrà, se vi è già un’idea. Poi, visto che sapppiamo che Jake ha collaborato anche al concepimento di Source Code, quali suggerimenti vi siete scambiati?

D.J. Devo dire che ho già scelto la mia bara: questo è il mio modo di pianificare le cose...! Poter realizzare questo film è stata per me una grandissima opportunità, anche perché mi ha permesso di dare il mio contributo creativo a una sceneggiatura molto bella e forte. La possibilità di lavorare con lui è stata eccezionale e l’ho colta al volo. È chiaro che ho un piano a lungo termine che prevede la collaborazione in molti altri progetti con Jake, piano che prevede ovviamente di farlo sentire a proprio agio, di fargli gradire la possibilità di lavorare con me.
J.G. Beh, il mio contributo è stato di coinvolgere il signor Jones nel progetto. E devo dire che i miei apporti sono stati di natura minore: qualche idea qua e là all’interno delle scene, ma nulla di grossa portata. Io ho proposto numerose idee e magari lui alla fine ne ha utilizzate un quarto. Per esempio è stata mia l’idea di offrire i soldi alla signora che mi prestava il cellulare, pensata che è stata poi reinserita nell’offrire i soldi al comico per far ridere la gente sul treno. Per me la parte più difficile, per tornare a una delle precedenti domande, è stata la storia d’amore con Michelle: cercare di capire da dove lei e Sean Fentress erano partite, come si sviluppava la loro storia.

Avrei una curiosità per Duncan Jones: vi sono due puntate di due serie tv, una della seconda stagione di Star Trek, l’altra di X-Files, dove nel primo esempio l’astronave si trova in continuazione ad esplodere, con l’equipaggio che rivive sempre la stessa situazione, fino a quando non ne scopriranno il motivo; invece nell’altro caso Mulder salta in aria a causa di una bomba e poi lui indagherà per scoprire che cosa è successo, rivivendo sempre la medesima situazione. Le ha viste? Sono state anche un po’ di ispirazione per lei?

Jones saluta a mo’ dei vulcaniani, sorridendo e suscitando una certa ilarità in sala, per chiudere rivolgendosi al giornalista dicendo:
Penso che apparteniamo alla stessa razza...!

Sei un trekker, però sei anche un fan di Guerre stellari, perché hai preso Paul Hirsch al montaggio, che ti ha fatto un gran lavoro: ci sono due stacchi di Source Code che sono dei veri capolavori...

D.J. In effetti una delle ragioni che ha contribuito a far funzionare il nostro film è stata proprio Paul Hirsch.


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