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THE ROAD TO GUANTANAMO

Pubblicato il 13 settembre 2006 da Antonio Pezzuto


THE ROAD TO GUANTANAMO

Quattro ragazzi che partono da Birmingham, Tipton, verso il Pakistan, perché uno di loro si deve sposare. Quattro ragazzi, musulmani, che una volta in Pakistan si rendono conto che possono fare qualcosa per altri musulmani e decidono, con leggerezza e senza pensarci tanto, di andare anche loro in Afghanistan, per dare una mano nella lotta contro gli americani. Quattro ragazzi che non sparano un colpo, uno scompare, gli altri vengono portati a Guantamano dove inizia una lunga serie di torture, per fargli confessare di essere di Al Qaeda, di aver conosciuto Bin Laden o Mohammed Atta.
Alla regia di The Road to Guantamano, Winterbottom assistito dal suo collaboratore Mat Whitecross (ex assistente al montaggio, realizzatore di diversi video musicali), sullo schermo si alternano le interviste ai veri protagonisti della vicenda, immagini documentarie e immagini ricostruite. Il punto di vista che si prende è uno solo: quei ragazzi avevano ragione, non c’entrano niente con Bin Laden, erano più o meno mossi da intenti umanitari. Così il regista di Codice 46, Benvenuti a Sarajevo e Butterfly Kiss mette di nuovo in pace la propria coscienza. Americani cattivi e musulmani buoni. E, con le interviste, rende chiaro che quello che sta dicendo è la sola verità.
A noi, però, sembra che la storia sia più complicata. Memori di Elephant di Gus Van Sant, abbiamo ormai imparato che non esiste un solo punto di vista, che le cose, le situazioni e la realtà non si possono appiattire. Che se da un lato esistono le vittime (perché sicuramente gli afghani sono vittime), dall’altro non esistono solo i carnefici. E che se per caso i quattro britannici in gita di piacere in Afghanistan non fossero stati quattro ragazzini innocenti ma veramente fossero stati quattro complici di Bin Laden i discorsi che si sarebbero potuti fare sarebbero stati completamente differenti. E sarebbe stato anche differente se le varie torture perpetrate dagli americani avessero portato, realmente, a qualche informazione fondamentale.
Perché il problema non è capire dove sia la verità o quali siano i mezzi che ci permettono di raggiungerla. Secondo noi il problema è che è sbagliato l’intero sistema, di chi va a fare una guerra, di chi si oppone a questa guerra combattendo, di chi fa saltare gli aerei. La logica di tutti questi atti è sempre la stessa: la sopraffazione di uno sull’altro, del forte sul debole. E se il forte è troppo forte bisogna trovare i suoi punti deboli (la metropolitana in Spagna, per esempio).
La tortura è orribile, lo sappiamo tutti. E lo sanno anche gli americani che ufficialmente non hanno il pudore di riconoscere di praticarla. Condannarla è come condannare lo stupro etnico, la pedofilia o il terrorismo. Non aggiunge niente a nessun discorso. Si resta sulla superficie.
E si resta sulla superficie, e si è anche colpevoli, se si usano tecniche narrative per spacciare le proprie verità per verità assolute. In questo modo Winterbottom colpisce il nostro punto debole. Vedendo i quattro ragazzetti festeggiare il matrimonio non si può che schierarsi se non per loro. Ma non si capisce cosa contro schierarsi: un errore giudiziario? I torturatori? O contro un cinema che non riflette?

(The Road to Guantanamo) Regia: Michael Winterbottom, Mat Whitecross; fotografia: Marcel Zyskind; montaggio: Michael Winterbottom, Mat Whitecross; musica: Molly Nyman, Harry Escott; scenografia: Mark Digby; costumi: Esmaeil Maghsoudi; interpreti e personaggi: Farhad Harun (Ruhel), Arfan Usman (Asif), Riz Ahmed (Shafiq Rasul), Waqar Siddiqui (Monir), Shahid Iqbal (Zahid), Ruhel Ahmed, Asif Iqbal, Shafiq Rasul; produzione: Michael Winterbottom, Andrew Eaton, Melissa Parmenter per Revolution Films, Screen West Midlands; origine: Gran Bretagna; durata: 95’


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