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A proposito di realtà e finzione: Il cinema al bivio

Pubblicato il 25 settembre 2005 da Mazzino Montinari


A proposito di realtà e finzione: Il cinema al bivio

Oltre ad aver curato le opere di Vertov e Ejsenstejn e pubblicato, nel 1999, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Pietro Montani negli ultimi anni ha dedicato una consistente parte dei suoi studi alle nuove tecnologie applicate ai sistemi audiovisivi. Una riflessione estetica che cerca di sciogliere il difficile nodo del passaggio dalla ripresa foto-grafica a quella digitale. Close-up lo ha intervistato non solo per continuare un discorso avviato un anno fa su questa stessa rivista a proposito del cinema digitale, ma anche per affrontate e rimettere in discussione quegli elementi che oggi sembrano aprire un divario non più riconciliabile tra fiction e non-fiction, soprattutto dopo l’avvento di film come Il Signore degli anelli e L’alba del giorno dopo che negano ogni originaria e connaturata componente testimoniale del cinema e, dall’altro lato, la feconda produzione di autori come, ad esempio, Kiarostami e Philibert che riaffermano con forza quella stessa componente nel solco di una tradizione cominciata con i fratelli Lumière. Nell’epoca della transizione dal foto-grafico al digitale, dunque, l’originario scambio reciproco tra la composizione propria della fiction cinematografica e la volontà di aprire il racconto a elementi tratti dalla realtà contingente, viene messo in serio dubbio. Le nuove tecnologie hanno mostrato percorsi che indicano approdi contraddittori tra loro e forse, mai come in precedenza, il cinema (di fiction e non) è l’arte che più di ogni altra potrebbe ancora assumersi il compito di esibire la realtà del nostro mondo.

Uno dei punti centrali della tua riflessione è l’assunzione del termine testimoniale, preferito al più classico documentario. È un modo per aggirare l’annosa questione della differenza tra generi cinematografici?

Innanzi tutto bisogna premettere che stiamo vivendo una fase importante della storia del cinema - la transizione dalla ripresa fotografica a quella digitale - nella quale la tradizionale distinzione tra fiction e documentario potrebbe non sussistere più. In tal senso preferisco parlare di una componente testimoniale radicata nell’apparato tecnico del cinema fotografico (e dunque presente anche nella fiction), che una cinematografia integralmente digitale potrebbe neutralizzare in modo completo. Oggi abbiamo, infatti, strumenti di produzione dell’immagine che possono prescindere del tutto dall’elemento testimoniale, che è costitutivo, in generale, della tecnica fotografica. Accade allora che, in questa fase storica, la rinegoziazione dei rapporti tra l’elemento finzionale e quello testimoniale del cinema debba essere completamente ripensata. Ma non spetta a me dire in che modo: il teorico deve fermarsi qui e lasciare la parola ai cineasti.

Perché quest’epoca dovrebbe essere considerata così importante?

Dobbiamo distinguere due piani. Il primo è quello che riguarda la continua ricomposizione del rapporto tra finzionale e testimoniale che attraversa tutta la storia del cinema, fin dagli albori con Lumière e Méliès, Ejzenstejn e Vertov e così via. Questa continua ricomposizione si è sviluppata in modo molto coerente lungo tutta la storia del cinema, seguendo un percorso segnato dalle più significative evoluzioni di carattere tecnico: dall’introduzione del sonoro a quella del colore, ecc. Oggi, però, per la prima volta, ci si trova di fronte a una difficoltà che potrebbe preludere a una divaricazione piena e non più colmabile. Da un lato abbiamo film come Il Signore degli Anelli o L’alba del giorno dopo, nei quali l’elemento testimoniale non riveste più alcun valore costruttivo, e anzi è percepito come un rumore da eliminare (e di fatto eliminabile, solo che i costi lo permettessero). Dall’altro si impone con autorità crescente una cinematografia che privilegia in modo netto il testimoniale con film come quelli di Michael Moore o Nicolas Philibert, oppure Lars Von Trier (penso in particolare aLe cinque variazioni) e molti altri ancora. Questo dal punto di vista strettamente storico. In senso teorico, mi rifarei a Ricoeur e al suo decisivo concetto di rifigurazione incrociata. Ricoeur afferma che il racconto storico, quello che mira alla testimonianza e che deve saldare il debito che lo storico contrae con le cose effettivamente accadute (soprattutto quando si tratta di ricostruire la storia delle vittime: si pensi al caso esemplare dei campi di sterminio), ha bisogno di attingere elementi di composizione dal racconto finzionale. A sua volta, quest’ultimo guarda continuamente al racconto storico perché ha la pretesa di ritornare sui fatti della vita, di incidere sul mondo dell’agire e del patire, e di modificarlo. La distinzione, dunque, va compresa a partire da questa più originaria co-appartenenza di finzione e testimonianza, che nei singoli casi, cioè nelle singole esperienze testuali, viene ricomposta nei modi più diversi. Da questo punto di vista, ad esempio, Elephant ci presenta un caso di ricomposizione molto interessante: personalmente sottoscriverei senza esitazione il giudizio secondo cui questo film possiede un tasso di testimonialità superiore a quello di Bowling for Colombine. Ma è significativo che entrambi i film lavorino precisamente nella zona di intersezione e di ricomposizione del finzionale e del testimoniale, cioè nello spazio della rifigurazione incrociata indicato da Ricoeur. Si potrebbero fare molti altri esempi che vanno nella stessa direzione. In termini più generali direi che tutto il grande cinema conosce questa relazione e la pratica con piena consapevolezza e con grande ricchezza di soluzioni espressive originali. Ebbene, nel momento storico in cui accade la transizione dal fotografico al digitale, sono convinto che il ripensamento di questo spazio intermedio sia diventato uno dei compiti essenziali del cinema, forse il suo compito primario.

Se i singoli esempi non contribuiscono a esaurire e a determinare il discorso teorico, a maggior ragione ancor meno decisive risultano quelle particolari modalità attraverso le quali si giunge alla realizzazione di un film: l’uso di una scenografia artefatta piuttosto che di una location reale o la partecipazione di attori professionisti o presi dalla strada e via dicendo.

Non spetta a me entrare nel dettaglio per definire, anche da un punto di vista tecnico, quali siano i procedimenti più adatti a garantire e valorizzare il carattere testimoniale del cinema. Io mi limito a un piano generale, ma non per questo astratto: si deve fare in modo che il dispositivo cinema sia in grado di recepire e accogliere quanta più realtà esterna possibile, facendo i conti con la sua radicale imprevedibilità. Qui l’esperienza di Kiarostami assume grande pregnanza. In E la vita continua, per esempio, il regista prende un’automobile e si dirige nei luoghi ancora devastati dal terremoto sapendo soltanto in parte a cosa andrà incontro il racconto (la storia di una ricerca) che intende realizzare. Per costruire questo racconto, finzionale e testimoniale insieme, si serve di uno strumento che è eminentemente sensibile ad accogliere e ospitare ciò che dalla realtà può arrivare in modo inaspettato e non pre-vedibile. Sono fortemente impressionato dai dispositivi tecnici che sono in grado di raccogliere e mettere in forma la contingenza del mondo esterno, che raccolgono e attestano ciò che arriva da fuori: il cinema fonda il suo primato proprio su questa capacità. Detto per inciso, nell’ordine della realtà di cui il cinema può e deve farsi testimonianza rientrano, a pieno titolo, anche le immagini artificiali. Per realtà esterna non si può intendere solo la landa deserta dell’Iran. Rispetto alla domanda sulla location e sul fatto che una scenografia costruita in modo integralmente artificiale possa disperdere o annullare il carattere testimoniale del cinema, direi che questa non è una regola da determinarsi con una teoria preventiva. Ci sono alcune magistrali sequenze di Godard girate in interni ricostruiti ad hoc, talora con un piano fisso per molti minuti di seguito, in cui la cogenza, la flagranza dell’elemento reale, come diceva Brandi, resta altissima e determinante. Insomma, le singole componenti che partecipano alla realizzazione di un film sono relativamente estrinseche: ciò che conta davvero è la capacità del cinema, sia di finzione che non, di accogliere l’imprevedibile e di portarlo dentro la propria struttura formale, conservandone i tratti di imprevedibilità.

In precedenza hai sottolineato il dovere di ricostruire la storia delle vittime. Quando si affronta il concetto di testimonianza, uno degli snodi fondamentali della storia dell’uomo e del cinema dal quale non si può prescindere è l’evento dei campi di sterminio. In più occasioni sei inter venuto nel merito facendo riferimento a Adorno, perché?

Adorno ha detto che dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie. Questo però non va inteso come una negazione di ogni forma di esperienza artistica, ma piuttosto come la denuncia di uno spartiacque - l’orrore dei campi, appunto - al di là del quale la rappresentazione non può più essere quella di prima. Dopo i campi di sterminio, la rappresentazione è tenuta a riqualificarsi integralmente. Adorno suggerisce che è possibile fare arte solo a questa condizione. Io aggiungerei che questa riqualificazione integrale deve passare attraverso un radicale ripensamento del concetto di testimonianza e che il cinema (e qui mi distacco del tutto da Adorno, che lo disprezzava) può e deve candidarsi a ricoprire un ruolo di primo piano in questo ripensamento. Come ho già detto, è proprio la tecnica del cinema a legittimare questa richiesta. Ma c’è di più. Non solo il cinema, in forza della sua natura tecnica attestativa e testimoniale, è il mezzo d’espressione più appropriato per ripensare lo statuto della rappresentazione dopo l’orrore dell’irrapresentabile; ma a questo si deve aggiungere che, attuando questo ripensamento, il cinema è forse in grado di farci comprendere qualche cosa di nuovo e di essenziale sulla stessa questione filosofica generale della tecnica. Di far emergere, insomma, elementi della tecnica che altrimenti resterebbero invisibili. È di questo, aggiungerei, che si dovrebbe parlare quando si affronta il tema, oggi purtroppo inflazionato e banalizzato, del rapporto tra cinema e filosofia.

Questo perché il cinema, più di ogni altra arte, ha in se una natura ambigua, tra oggetto industriale di consumo e carattere, eticamente oltre che esteticamente, testimoniale?

Il cinema mostra di poter lavorare con un’ampiezza e libertà che non è più raggiungibile dalle altri arti, le quali negli ultimi trent’anni si sono totalmente integrate in quella che Adorno chiamava industria culturale e che oggi possiamo indicare con l’espressione mezzi di comunicazione di massa. Siamo giunti al punto che il discrimine tra l’artistico e il mediatico non è più riconoscibile. Il fatto che l’estetica moderna si sia fatta totalmente inglobare dall’industria culturale fino a rendere irriconoscibile questo discrimine, dimostra che un’alternativa a ciò che per molti secoli abbiamo chiamato arte può sorgere soltanto là dove la questione della testimonianza soppianti la questione della creatività e della poiesis. Pensiamo allo straordinario dispiegamento delle risorse creative rese disponibili dalle nuove tecnologie dell’immagine. Ebbene, di fronte a questo eccezionale potenziamento sono possibili due atteggiamenti: da un lato quello di enfatizzarne l’aspetto poietico (come fanno, e a giusto titolo, del resto, i creativi dell’industria culturale, indistinguibili, in ciò, dagli artisti visivi), dall’altro quello di interrogarne le nuove potenzialità testimoniali. Il cinema sembra voler far sua questa seconda strada, nella quale la questione della tecnica si carica in modo evidente e immediato di connotati etici (ho infatti parlato della testimonianza con un riferimento fondativo al problema delle vittime e dei campi di sterminio). Si vede meglio, a questo punto, in che modo il cinema possa portare allo scoperto elementi occulti e in genere invisibili della tecnica stessa (nell’accezione ampia che interessa la filosofia). Ad esempio, la tecnica come accoglimento dell’Altro- dove l’Altro può essere il mondo che non conosciamo, ciò che si sottrae allo schematismo dell’industria culturale, ciò che la realtà mediatizzata sottrae alla vista, ma anche l’altro uomo, il diverso da me, il singolo irriducibile. In tal senso, il digitale, nel suo uso più consapevole, mette a disposizione del cineasta una tecnologia talmente duttile da poter lavorare nelle pieghe del reale raccogliendo testimonianze con una facilità e rapidità che prima non erano consentite. Qui l’innovazione rende possibile un atto di riflessione che porta a un ripensamento della tecnica in direzione di una dimensione etica che mi piacerebbe contrapporre a quella poietica tipica dell’estetica moderna (e dei creativi che ancora la praticano).

In questo ripensamento sembra essere incluso il concetto di interattività tra il regista, che non è più il solitario homo faber che costruisce la propria opera fuori dal mondo della contingenza, e gli elementi imprevedibili della sua rappresentazione testimoniale.

Qui l’argomento si sposta su un piano diverso che ci riporta al grande progetto di Vertov e che oggi trova un corrispettivo nell’interattività che comunemente viene praticata nella rete. È evidente, del resto, che in questo caso diventa difficile se non impossibile parlare di arte. Ho citato Vertov pensando alla sua idea di un testo che in ogni momento del suo svolgimento sequenziale può essere interrotto per aprire nuovi link. Per essere più chiari, nel caso di Vertov e di Internet il concetto classico di testo è saltato ed è stato sostituito da quello di una sequenza interminabile. Più che di arte si dovrebbe dunque parlare - seguendo Benjamin - di un uso politico delle tecniche di produzione e riproduzione dell’immagine. Ciò in parte avviene in rete, solo che su Internet accadono fenomeni estremamente eterogenei che rendono vano ogni discorso che pretenda la coerenza di un’interpretazione unitaria. Certamente si sono avuti momenti significativi in cui si sono realizzati degli spazi politici vertoviani aperti e virtuosi: penso a quanto è accaduto dopo i fatti di Genova. Ma si tratta di eventi isolati, e solo molto parzialmente indicativi del senso generale (che non c’è o non è ancora visibile) della comunicazione in rete.

Hai citato Genova, e potremmo, a ragione, aggiungere l’attentato alle Twin Towers. Sono due momenti che segnano una cesura o è ancora troppo presto per operare una riflessione che sia esaustiva?

Immediatamente dopo l’11 settembre ho avuto l’impressione ottimistica che il mondo occidentale mediatizzato avrebbe avuto uno scossone e si sarebbe fatto penetrare da un maggior grado di realtà, come se la sovrapposizione dell’immaginario hollywoodiano sul fatto reale fosse stata a tal punto eclatante da produrre il contraccolpo di una rinnovata sensibilità per il reale. Questo non è accaduto. Il crollo dei miti del mercato virtuale, per esempio, è durato poco, e si è imposta una rapida restaurazione. Parallelamente, l’episodio di Genova ha mostrato qualcosa di importante: la ricostruzione documentale dei testimoni, cioè di chi era presente e aveva visto, si è contrapposta vittoriosamente alla versione fornita dal Ministero degli interni. Molti si sono sentiti in dovere di far circolare la loro testimonianza e questo sistema vertoviano di link ha funzionato egregiamente. Si tratta però di un episodio abbastanza isolato. Non ne ricordo di altrettanto significativi. Forse possiamo citare anche la smontatura della tesi del governo spagnolo in occasione dell’attentato dell’11 marzo falsamente attribuito all’Eta. In ogni modo, è certo che in rete esistono le potenzialità per mettere seriamente in discussione i sistemi di potere che controllano l’immaginario collettivo. Il fatto è che Internet ha mantenuto solo in piccola parte le promesse e non si è dimostrato quel luogo eminentemente politico che ci eravamo immaginati qualche anno fa.

Ma a Genova non si è verificato un cortocircuito tra la volontà etica di testimoniare e l’ambizione estetizzante di produrre comunque, e a tutti i costi, delle immagini?

In primo luogo, Genova rientra perfettamente nel paradigma de L’uomo con la macchina da presa vertoviano. Quell’uomo circola infatti nel mondo delle contingenze e del politico sapendo che egli stesso ne fa parte e che quel mondo potrà essere modificato dalla sua stessa presenza. Questo sapersi interni a un mondo di cui fanno parte altri individui (la pluralità del politico nel senso di Arendt) che nello stesso momento ne rendono conto da punti di vista diversi, non toglie nulla alla possibilità genuina di offrire una testimonianza. Si tratta, in ogni caso, di testimoni interni al mondo e insieme di individui singoli che si fanno carico della parzialità della loro visione: nessuno di essi pretende di osservare le vicende collocandosi nel luogo privilegiato (e inesistente) di una veduta totale. È questo il politico, nel senso di Vertov, che qui coincide perfettamente con la concezione di Arendt. Quanto all’estetizzazione, vanno sottolineati alcuni episodi importanti che dimostrano come la società civile sia in grado di immunizzarsi, almeno in parte, dalla pervasività dell’immagine mediatica (cioè dall’estetizzazione totale del politico). Il crollo di Forza Italia e del suo leader nelle ultime elezioni europee dimostra in modo confortante come il progetto di una realtà interamente mediatizzata sia fallimentare. Se però la pars destruens è abbastanza chiara, quello che non si riesce ancora a scorgere, in modo limpido, è la pars costruens. Per questo sostengo che i cineasti consapevoli hanno oggi una grande responsabilità, perché il cinema è uno dei grandi strumenti che può contrastare i sistemi di potere che mirano a una mediatizzazione integrale della realtà e a una parallela estetizzazione del politico. Il cinema, dunque, può prospettare una vera alternativa nel senso testimoniale di cui abbiamo parlato. Molti segni confortanti vanno in questa direzione e se ne vorrebbero vedere ancora di più.


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