X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Guido Lombardi: l’umanità napoletana nel mio Take Five

Pubblicato il 2 ottobre 2014 da Francesca Polici


Guido Lombardi: l'umanità napoletana nel mio Take Five

Dopo la vittoria del Leone del futuro con Là-bas, Guido Lombardi torna nelle sale. A un anno dalla presentazione in concorso al Festival di Roma, Take Five si appresta ad occupare i cinema italiani. Questa volta nessun impianto realistico e documentaristico, ma un mix di generi che abbraccia il gangster e la commedia per creare un’opera brillante ed innovativa.

Take Five è un film che mescola più generi, che alterna momenti fortemente ironici a momenti profondamente drammatici ed amari, ma mai abbandona lo sguardo sociale che, al contrario, nel decorso narrativo diventa quasi preponderante. Vorrei capire da dove sei partito, se la tua idea di fondo era quella di fare un film di genere a cui successivamente hai concesso un’anima sociale o se sei partito dalla tematica sociale per poi dotarla di un impianto formale di genere.

Diciamo che il tutto è nato in parallelo. Con Gaetano c’era l’idea di fare un film che esplorasse più generi cinematografici e diverse tecniche narrative, ma contemporaneamente la volontà di trattare una realtà sociale disagiata come quella della criminalità che investe Napoli. In un primo momento però è prevalso l’impianto realistico, un’impostazione che ha iniziato a stufarmi perché forse abusata negli ultimi tempi, soprattutto per quanto riguarda la descrizione della realtà campana. Ho pensato che non fosse un buon “servizio” neanche per gli interpreti che oramai erano diventati attori a tutto tondo e, come tali, volevo utilizzarli. Così ho iniziato a spogliarli dei precedenti ruoli e a mettere mano sulla sceneggiatura, rendendola più fantasiosa.

Come è stato lavorare con attori così esuberanti come Striano e Di Vaio, ma anche tutti gli altri che da soli riempiono la scena?

E’ stato molto faticoso. Per girare il film avevamo soltanto poche settimane e così ho pensato che l’unico modo che avevo per farli entrare nei rispettivi ruoli era quello di fare qualche settimana di prova. Ed è proprio nelle prove che sono usciti fuori i loro personaggi e hanno trovato la “quadra” abbastanza rapidamente. Ho faticato più con Sasà perché era molto legato alla vecchia sceneggiatura in cui svolgeva un ruolo piuttosto simile ai suoi precedenti. Eppure alla fine è riuscito a diventare un criminale molto più riflessivo, capace di attendere, lacerato dal dubbio delle proprie azioni, su quante persone può sacrificare per salvare se stesso. Che poi era anche l’aspetto che mi interessava di più.

Pensi che in qualche modo il trascorso di questi attori abbia inciso nel loro modo di lavorare?

Alla fine credo che non sia stato così rilevante come doveva essere originariamente. Sono attori molto maturati rispetto agli inizi, hanno fatto un vero e proprio lavoro di recitazione. Il fatto di avere certe esperienze sulla strada in qualche modo credo che porti a recitare il ruolo di chi sa il fatto suo, ad essere più carismatici.

Pensi che inserire nel cast attori con un passato da detenuti possa concedere una forte valenza sociale al film? Pensi che, in riferimento alla tragicità e alla disumanità totale in cui vivono i detenuti nelle carceri italiane, l’opera possa dare un messaggio forte in questa direzione?

Ha una valenza quasi politica direi. Quando con Gaetano immaginavo questo cast, stavamo scrivendo il romanzo Non mi avrete mai, ispirato alla sua vita, in cui sono raccontate tutte le violenze che questo ha subito negli anni della detenzione. Una scelta politica quindi, che vuole descrivere il cinema come una forma di riscatto per questi ragazzi. Ma non come fanno molte produzioni straniere che vengono a Napoli per realizzare film come Gomorra ed utilizzano certi ragazzi perché perfetti nell’interpretare se stessi e poi finisce tutto dato che difficilmente certi percorsi si traducono in carriere. Io, al contrario, volevo sfruttare l’umanità napoletana e dimostrare che loro sono degli attori e che possono interpretare qualsiasi ruolo.

Napoli è una realtà che a lungo è stata raccontata nel cinema italiano e che tuttavia continua ad attirare molti autori. Perché questo bisogno di descrivere la città in tutte le sue sfaccettature?

Perché Napoli è un po’ la punta estrema del nostro paese, avanti nel degrado sociale rispetto ad altre realtà cittadine. È come se Napoli mostrasse la direzione verso cui stanno andando le cose in Italia.

Negli ultimi anni, all’interno del panorama cinematografico italiano, abbiamo assistito ad una vera e propria rinascita del genere documentario e della docu-fiction. Credi che questo dipenda da un maggiore bisogno da parte degli autori di aderenza alla realtà oppure non siamo più in grado di produrre cinema d’autore di un certo spessore e commedie “intelligenti”?

È un tema su cui ancora mi sto ancora interrogando. Il fatto però, è che se prendiamo una commedia ben fatta come ad esempio Scialla, vediamo che è riuscita a raccogliere solo un paio di milioni al botteghino. Un film come questo, anni fa avrebbe fatto almeno 8 milioni di euro, come all’epoca fu Ovosodo di Virzì. Credo che, in tal senso, sia un problema che investa più il pubblico che gli autori. E poi la verità è che non si riesce a trovare un punto d’incontro più popolare fra cinema d’autore e commedia. In qualche modo Take Five ha rappresentato un tentativo, sempre in questo senso, e devo dire che è stato molto difficile farlo capire ad una parte della critica. È un problema che c’è da sempre, che ha riguardato anche la commedia all’italiana, secondo alcuni critici più ortodossi vige sempre il ragionamento per cui certe tematiche non possono essere trattate con sarcasmo ed ironia, anche se alla fine la risata lascia in bocca un sapore amaro.

Dopo Là-bas che ti ha fatto vincere il Leone del futuro a Venezia, hai avvertito una maggiore attenzione nei tuoi confronti da parte del mondo cinematografico? È stato più facile produrre un film oppure i premi in Italia ormai non servono più a niente?

Beh, sicuramente sono riuscito a ricevere un finanziamento (seppur risicato) da parte del MIBACT, nonostante all’inizio mi sia stato negato due volte, ed uno più cospicuo da Rai Cinema. In ogni caso, Take Five non è un film mainstream, non ci sono attori di richiamo ed è sempre piuttosto a low budget – anche questo ha ritardato così tanto l’uscita. Diciamo che i premi certamente aiutano, ma il cinema che accede a risorse più importanti è un altro, a prescindere dai premi.


Enregistrer au format PDF