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Il villaggio di cartone (Conferenza stampa)

Pubblicato il 7 ottobre 2011 da Marco Di Cesare


Il villaggio di cartone (Conferenza stampa)

Roma, 4/10/11. Ci troviamo in una delle sale del Cinema Quattro Fontane per assistere alla conferenza stampa de Il villaggio di cartone, ultima pellicola di Ermanno Olmi, presentata fuori concorso a Venezia 68. Protagonista unico delle domande rivolte dai giornalisti è il maestro lombardo.

Qualche anno fa aveva dichiarato che si sarebbe dedicato solamente ai documentari: cosa l’ha spinta a tornare dietro la macchina da presa per realizzare un film?
Avevo in mente un progetto – già avviato - di film-documentario lungo tutte le coste del Mar Mediterraneo per cercare quel che era rimasto delle grandi civiltà. Noi viviamo in un momento storico nel quale avvertiamo tutti di essere giunti alla vigilia di un grande cambiamento: come si sono mosse le merci all’interno dei mercati globali, così si muovono i popoli, i quali cominciano a convenire dove ritengono di poter migliorare le proprie condizioni di vita. Ecco perchè noi non riusciremo mai a fermare questo movimento: perché è la Storia che lo impone e, come avete visto dalla didascalia finale de Il villaggio di cartone, se non cambiamo noi sarà la Storia a cambiarci. Per cui sentivo il bisogno di andare a ritrovare le nostre origini, tutto quello che rimaneva ancora vivo, attuale e praticato delle culture millenarie passate. Ma per una disgrazia mi sono fatto male cadendo, cosa che mi ha costretto a rimanere immobilizzato a letto per settanta giorni. A quel punto ho cominciato a scrivere: accanto al mio letto ho cominciato a convocare quello che immaginavo potesse rimanere della nostra patria mediterranea. Di certo non potevo realizzare un’opera geograficamente vasta e, in più, ho addirittura ridotto il luogo dell’appuntamento a un unico ambiente.

Lei ha parlato del Cristianesimo come uno dei grandi eventi nella storia dell’umanità. Colpisce come le masse migranti ritratte in Il villaggio di cartone non portino un ricordo dell’Islam: il Cristianesimo, per quanto messo in crisi, c’è; l’Islam, ossia uno degli elemnti di contraddizione che queste genti portano in Europa, non viene affrontato.
Mi perdoni, ma non sono d’accordo per quanto riguarda la contraddizione. Quando Cristo chiamò Pietro e gli disse «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa» non intendeva riferirsi a una cattedrale architettonica, ma intendeva affermare ’La mia Chiesa la fondo su un uomo’: e tutti gli uomini sono una Chiesa. Liberiamoci di quest’idea delle chiese come ambito in cui rassicurarci attraverso una fede religiosa o ideologica. Dobbiamo abolire tutte le chiese: quelle cattoliche, quelle ideologiche e quelle laiche... La Borsa di Milano non è forse una chiesa? E la cultura non ha forse le sue chiese, dove si decide chi sono quelli bravi e quelli meno bravi? Noi dobbiamo recuperare la nostra facoltà di uomini, che è quella di essere soggetti liberi. Solo che la libertà ha un costo altissimo: la solitudine.

Poco più di una settimana fa, a Friburgo, il papa ha fatto un discorso molto importante nel quale chiedeva che la Chiesa si demondanizzasse, che si liberasse del suo fardello materiale e politico. Secondo lei questo momento storico può essere un’occasione di rinnovamento per la Chiesa cattolica?
Anche per la Chiesa vale la stessa cosa: se non sta al passo coi tempi è chiaro che perde il contatto con la realtà e quindi (in quanto istituzione, non sto parlando della Chiesa di ciascuno di noi) parla un linguaggio che la storia ormai non parla più.
Ieri, o l’altro ieri, il Papa su Il Messaggero ha parlato degli angeli: non penso che il pontefice sia così sprovveduto da pensare che ci siano in giro questi esseri che sbattono le ali intorno a noi. Ma io credo che gli angeli abitino dentro ciascuno di noi. E qualche volta noi stessi possiamo svolgere il ruolo di angeli, quando portiamo soccorso a chi ne ha bisogno.

L’immagine della chiesa che viene svuotata e dismessa - un’immagine dolorosa, almeno per un credente – quale delle due Chiese di cui abbiamo finora parlato rappresenta? I Cristiani che hanno sbagliato, oppure quella ufficiale, gerarchica?
Noi abbiamo sempre avuto l’esigenza di trovare rassicurazione presso le istituzioni o dei gruppi di forza, sentirci dentro un assetto di comunità strutturata. Ed e proprio l’idea di un idolo che ci protegge e può elargire delle grazie, che ci trasforma in idolatri: pensate a quando la Chiesa distribuiva le indulgenze dietro pagamento. Quanto tempo ci vorrà ancora perché noi uomini possiamo affrontare il discorso di libertà individuale? A che punto è la democrazia dopo che sono trascorsi 2.700 anni dalla sua nascita? Citatemi uno stato dove vi sia una democrazia partecipata - non partecipativa - vale a dire dove ogni cittadino sia un soggetto attivo per quello che la democrazia vale come modello di convivenza umana. Ciò vuol dire che, come uomini, abbiamo disatteso i nostri doveri.

Lei prima diceva che la libertà si paga spesso con la solitudine: lei, nel mondo del cinema italiano, si sente solo?
Se lei parla dei miei colleghi, le rispondo subito che mi sento in gran bella compagnia! Ma mi sento solo in quanto non ho mai praticato il cinema di Roma, nel senso della Chiesa del cinema: e sapete bene come partiti, Chiesa cattolica ecc. abbiano formato all’interno della Chiesa del cinema le altre chiese. Quando tutto il cinema italiano era dichiaratamente di sinistra, appartenente alla Sinistra, io che non sono mai stato comunista – ma neanche democristiano – sentendomi felicemente libero di non appartenere a qualcuno, ero solo. E devo dire che molte cose che ho fatto a Milano non sono nemmeno giunte a Roma.

Quali sono stati i contributi di Monsignor Ravasi e di Claudio Magris? Poi vorremmo sapere qualcosa sull’isola di Gorée, quella da cui partivano gli schiavi, poiché è un importante rimando storico. E ancora se, attraverso l’influsso della musica contemporanea, voleva fare de Il villaggio di cartone un oratorio. Infine: quali sono i suoi gusti musicali?
Magris e Ravasi sono due amici di cui ho grandissima stima. Mi sono confrontato con loro, raccontando il progetto e mostrando loro la sceneggiatura, che abbiamo commentato insieme; e ho avuto il conforto della loro partecipazione, attraverso una via sentimentale, con loro che mi spingevano a realizzare il film. Addirittura Claudio Magris mi ha ricordato che in Microcosmi la Chiesa diventa un luogo aperto a tutte le condizioni a cui l’uomo è sottosposto, nel bene e nel male; ed essa diventa non soltanto il luogo in cui si celebrano liturgie religiose, ma anche una tregua tra gli uomini.
Gorée...? Per forza! È il crocevia della storia di questa grande tragedia di popoli, sacrificati al profitto.
Sofia Gubaidulina è una delle grandi compositrici dei nostri tempi. Venne ad Asiago tre anni fa per tenere un concerto; io non l’ho conosciuta personalmente poiché era il periodo in cui mi trovavo immobilizzato a letto. Ma mi sono fatto dare alcuni suoi dischi e mi sono innamorato della sua musica. Mi capitò la stessa cosa con L’albero degli zoccoli, per cui non riuscivo a trovare una musica da collocare come filo del sentimento lungo il film: provai di tutto per capire in quale direzione andare. Un giorno, per disperazione, ho messo le Sonate per violoncello solo di Bach: e lì è stata la scoperta, che il mondo contadino e Bach sono la stessa cosa.

Recentemente in un’intervista ha dichiarato che il lavoro fisso è la sicurezza degli insicuri: potrebbe spiegare meglio questa affermazione?
Non capisco dove lei voglia arrivare... Quando sulla scena del mondo è apparsa l’era industriale, dove serviva l’aiuto di molte braccia, queste sono state prese dal mondo rurale. Quale era il rischio del mondo contadino? In certi anni vi erano dei buoni esiti; in altri la carestia, quindi un disagio a volte tragico, come la pellagra. L’industria invece rappresentò una rassicurazione, la fiducia in una civiltà che avrebbe illuminato le vie dell’umanità (si pensi a cosa la Torre Eiffel rappresenta). Siccome con l’industria si facevano avanti i nuovi meccanismi per coltivare i campi, in molti si sono rassicurati andando sotto la protezione dell’industria, che si credeva essere il futuro di una nuova ricchezza che garantiva la ricchezza. Tanto è vero che ci fu lo spopolamento delle zone rurali. E i latifondisti che, giorno dopo giorno, vedevano scomparire le braccia che lavoravano i loro fondi, hanno inventato la mezzadria, ossia la possibilità per i contadini di diventare dei piccoli padroncini dei loro appezzamenti di terreno. Dal secondo dopoguerra, però, si cominciarono a vendere i terreni perché nessuno li voleva, a causa della conocrrenza non solo della grande industria, ma anche delle nuove tecnologie. Adesso eccoci qua a questo appuntamento: cosa ne facciamo della terra? Vogliamo farne un’industria, oppure delle colture? Che non sono solo buone e gustose, ma anche salubri come medicine. E questa sarà una nuova rivoluzione.

Quanto è importante per lei la diversità e come la vive? Perché oramai siamo abituati a sentire tanti, Chiesa compresa, riempirsi la bocca dicendo ’Fate solidarietà’, quindi siate solidali col il prossimo: però rimangono solamente delle parole...
La solitudine è la conseguenza di una scelta di libertà e di responsabilità. Allora la solidarietà che cosa è, se non proprio accettare qualcuno solo perché ne ha bisogno, ma bensì perché è amico: la raccomandazione di Cristo è ’Vi chiamerà amici’. Va benissimo fare delle donazioni: però siamo disposti a dare, anche molto generosamente, la nostra offerta per i bambini dell’Africa, ma poi, appena vengono qui, li cacciamo via. Ma allora dove è la solidarietà?

Perché nel suo cinema ha deciso di raccontare sempre le vicissitudini delle classi meno agiate?
Beh, perché quella agiata non la conosco...! Fino a un certo livello l’agiatezza è accettabile: probabilmente chi ne dispone è perché se la merita, poiché dispone di talenti particolari. Io mi sento agiato rispetto alla mia collocazione di nascita: la campagna povera e la periferia operaia. Ma c’è qualcosa di offensivo quando si va al di sopra di questa agiatezza accettabile: credo che chi possiede grandi lussi sia, pur avendo assolto i suoi doveri (compreso il fisco), un crimine, perché sottrae ricchezza agli altri.

Perché ha effettuato la scelta stilistica di porre Il villaggio di cartone all’interno di una dimensione claustrofobica e cupa? Poi vedo molti richiami al Manierismo (la Deposizione, la Pietà): ma il Cristo che vi appare non è liberazione, ma più ossessione...
È chiaro che il film è un apologo, secondo un modello di rappresentazione teatrale, tra l’altro di cartone. Siamo in un luogo claustrofobico, ma scenografico: non è una realtà riscontrabile nella realtà, ma una realtà-simbolo; quindi ciò che l’apologo mette nello svolgimento della sua rappresentazione è simbolo, non può essere realistico. Del resto lei avrà avuto consapevolezza che all’esterno abbiamo un fondale. Perciò guai se noi dovessimo leggere questa pellicola come un’opera realistica.
Perché l’apologo? Perché nell’apologo la sublimazione che nell’opera di poesia è fatto dalla poesia, qui è realizzata dall’immagine-simbolo e dalla parola-simbolo. Infatti alcuni mi hanno detto che i personaggi parlano come un libro stampato... Appunto! È proprio questo! Vi sono frasi come «Il bene vale più della fede», un’affermazione che contraddice l’inverso, ossia ’La fede vale più del bene’: si tratta di una frase simbolo, di un’icona. Se noi non accettiamo questo, è come andare a sentire un’opera lirica e dire ’Ma qui cantano!’.
Per me Cristo è un’ossessione in quanto io, aspirante cristiano, sento che non ce la farò mai ad essere il più vicino possibile a questo modello. Però non riesco a togliermelo dagli occhi. E quindi l’ossessione in seguito diventa una liberazione, perché – anche se sembra una contraddizione in termini – è proprio accettare questa ossessione che ti dà, a volte, dei lampi di liberazione. Quando siamo innamorati abbiamo l’ossessione dell’amore concettuale; prima di innamorarci abbiamo questa icona d’amore e siamo ossessionati perché aspettiamo di innamorarci. Quando ci innamoriamo, l’ossessione non è più verso l’icona-amore ma diventa un verbo: ’amare’. Allora l’icona diventa realtà, quell’ossessione si trasforma nella nostra nuova condizione di innamorati. Per cui mi libero dell’ossessione nel momento in cui pratico l’amare: non come icona, ma come verbo.


RECENSIONE DE IL VILLAGGIO DI CARTONE


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