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Incontro con Carlo Benso, regista del film "Fuorigioco"

Pubblicato il 2 aprile 2013 da Edoardo Zaccagnini


Incontro con Carlo Benso, regista del film "Fuorigioco"

È costato pochi soldi e tanti sacrifici. Con tenacia e un grande entusiasmo, l’esordiente Carlo Benso ha realizzato un progetto difficile, sincero e sentito. Lontano da bassi calcoli commerciali, interessato piuttosto a descrivere uno dei mali principali che affliggono la nostra società, Fuorigioco, questo il titolo del film, è un’opera prima che fa male, che scuote, che fa paura molto più di tanti film pieni di sangue e di spari. E’ un film sul presente e sulla crisi, ma anche su qualcosa di più strutturale nella nostra cultura. E’ un film sulla perdita del lavoro, o meglio, sull’idolatria del lavoro e del potere nel nostro sistema. Fuorigioco è indipendente nel vero senso della parola, anche se nel cast ci sono bravi attori come Toni Garrani, Nicola Pistoia e Crescenza Guarnieri. E’ un film duro, è la storia di un’espulsione, di un’esclusione, di un black out improvviso e duraturo, di una crisi profonda, di una perdita d’identità.

Abbiamo incontrato Carlo Benso in occasione di un’anteprima presso il Filmstudio di Roma, sala cinematografica che distribuirà il film dal prossimo 11 aprile per una settimana. Poi si vedrà. Abbiamo chiacchierato un po’ col regista, siamo partiti col chiedergli: quando e come è nata l’idea di Fuorigioco?

Ho 56 anni e ho dedicato la mia vita al teatro e al cinema, convivendo con la totale precarietà di un lavoro continuamente da inventare. Tutto questo comporta fare i conti con continue e profonde frustrazioni cercando di non farsi schiacciare da un gioco di forza tra possibilità e impotenza. Promesse e aspettative disilluse. Il tempo che scorre inesorabilmente e ti spinge a fare un bilancio di un’improbabile e sgangherata carriera. Insomma ero già parecchio predisposto a trattare certi argomenti, e cercavo la storia giusta per incanalare una rabbia repressa e impotente.

Finchè?

Finchè scoppia la crisi, una crisi globale e il mio sguardo da soggettivo diventa oggettivo e si dilata su un contesto sociale che sta improvvisamente crollandoci addosso. Improvvisamente solo in apparenza, in quanto la crisi è frutto di tanti anni di politiche spregiudicate e di un mercato divenuto postribolo virtuale per una banda di speculatori che giocano sulla vita degli altri come su una play station. La crisi di un intero sistema sociale si intreccia con le mie insoddisfazioni e inquietudini indirizzando la mia attenzione su quegli aspetti più nascosti e meno rivelati della crisi.

Che sono?

Sotto la catastrofe economica germoglia la consapevolezza di aver perso qualcos’altro, qualcosa di più grande e profondo che sfugge all’analisi e rende incapaci di trovare un’alternativa in grado di ristabilire una convivenza con la realtà. La perdita del lavoro coincide con la perdita della dignità, l’estromissione dal proprio ruolo significa fallimento, annullare competenza ed esperienza rende inutile e insignificante l’esistere. A testimonianza di questo sono i suicidi di molte persone che hanno riempito la cronaca del nostro tempo.

Non è solo una questione economica...

L’aspetto economico non basta a giustificare tutto questo. Mi rendo conto che la sconvolgente fragilità del nostro sistema è dovuta a un rovesciamento se non a uno svuotamento di valori che strutturano e articolano l’essere umano. La dignità di un uomo non è più connaturata nella persona in quanto tale, ma è costretta a rappresentarsi in un ruolo. Il rispetto e la stima sono legate alla funzione e non più all’essere. La solidarietà umana non è altro che un intreccio di interessi. Uno spostamento di prospettiva che rende opaco e confonde la natura di tutte le cose.

Da tutto questo nasce Fuorigioco..

Da qui l’urgenza di raccontare una storia capace di rappresentare il paradosso in cui siamo caduti. Un racconto non solo di denuncia sociale, ma metafora di un sistema ormai obsoleto e incapace di rinnovarsi.

Il titolo. Cosa vuol dire "fuorigioco" nello specifico?

Fuorigioco è quando un giocatore si trova, a volte senza saperlo, in una posizione tale da annullare qualsiasi possibilità di gioco. Il giocatore non può più avanzare, nè tornare indietro, tutta la sua azione è vana, inutile, e la partita si ferma. Mi sembrava il titolo giusto per la vicenda che racconto.

Chi è Gregorio Samsa, e perchè il suo nome è identico al protagonista della metamorfosi di kafka?

E’ una citazione che rende il protagonista della mia storia metafora di un sistema sociale depresso e incapace di rinnovarsi. Kafka dice: “Una mattina ci svegliamo e guardandoci allo specchio, non ci riconosciamo più.” E’ una condizione che spiazza, destabilizza e conduce nel vortice della depressione generando una metamorfosi psicologica e mentale. Gregorio, nella storia che racconto, è un manager d’azienda che improvvisamente perde il suo posto di lavoro e perdendo il suo ruolo, perde se stesso. Non si riconosce più. Il silenzio e il vuoto che lo avvolge si riempie sempre più di angosciose paranoie e lo spinge alla ricerca di un capro espiatorio.

Il tuo, più che un film sulla perdita del lavoro, è un film sull’idolatria del lavoro e sull’idolatria del potere nella nostra società.

Come dicevo prima, il valore dell’essere umano è costretto a rappresentarsi in un ruolo. Tolto quello, non rimane più nulla. La persona c’è, esiste e viene riconosciuta solo in funzione di un ruolo. Questo ha permesso l’evolversi di un sistema sociale basato sulla rappresentanza e non sull’essere. Da qui il farraginoso e crudele gioco del potere, una corsa alla rappresentazione di sé, una volgarizzazione della responsabilità culturale e politica svuotata di ogni contenuto.

Tu racconti una crisi senza guarigione, un viaggio agli inferi senza ritorno. Come mai hai deciso di non far ribellare il protagonista dalla sua condizione? Come mai hai tolto ogni spiraglio di luce al suo tormento?

La mia ambizione era quella di lanciare un urlo, come se volessi dare un’ allarme. Solo così forse potevo rendere appieno lo spaventoso stato di una depressione. Spaventare per mettere in guardia che se continuiamo in questo modo, se non cambiamo mentalità, non c’è alcuna speranza di salvezza. Io però, mi fermo prima della tragedia. Non so cosa succeda dopo al protagonista. Lo porto fino al limite, ma mi fermo un passo prima di precipitare. Forse questo indica un cambiamento di rotta? Non lo posso sapere né tanto meno dare alcuna risposta. Inoltre quello che mi interessava veramente era il procedimento della crisi esistenziale innescata dalla perdita del nostro posto o quello che riteniamo essere il nostro posto nel mondo. Siamo tutti al buio, la luce è ancora lontana, forse è oltre la nostra storia come le parole di Peter Hammill alla fine del film. Nel film c’è anche molto sarcasmo ed ironia che mi distacca non dal dolore e dall’angoscia del protagonista, ma dalla sua personalità permettendomi uno sguardo pietoso e comprensivo.

In che misura Gregorio é simbolo della nostra società?

E’ un uomo ancorato a questo sistema, figlio di questo sistema. Il suo malessere è lo stesso malessere sociale. La sua crisi è il risultato della sua cultura e della sua educazione. La sua vicenda amplifica lo sguardo di chi lo osserva verso una realtà più universale per il semplice fatto che tutti ci ritroviamo a vivere lo stesso contesto sociale e culturale.

Accanto a lui si muovono altri uomini. Nessuno di questi sembra aver risolto il problema, essere cioè felice e realizzato nella nostra organizzazione sociale. La fuga sembra l’unica speranza. Nel proprio mondo, vedi lo scrittore di favole, in un altro paese, vedi l’uomo che vuole andare in Africa, nella morte, perchè poi uno si suicida e un altro accoglie una malattia incurabile con una serenità che forse nasce dall’infelicità del quotidiano. Perchè tutti questi personaggi maschili sono così negativi? Quale male li accomuna?

Perché sono uomini, maschi, figli di una mentalità e cultura maschilista che ha ormai esaurito ogni sua funzione sociale. Educati al lavoro, alla carriera, all’ambizione di un posto onorevole, non hanno scampo. Vedi come Gregorio si relazione alla donna. Per lui la donna è conquista, possesso ed espressione di potere. Per questo, tolto dal suo posto, è ossessionato dall’impotenza, anche sessuale. Gli altri personaggi maschili, in un modo o nell’altro, fanno da contrasto alla fissazione di Gregorio proponendosi alternative o fughe da questa realtà che li ha emarginati. Cercano di reinventarsi qualcos’altro che li possa comunque giustificare. Questo per risaltare la totale incapacità di riscatto di Gregorio. Anche il personaggio di Pino che sembra il più positivo, quello che infine si salva, che riesce a trovare una sua dimensione, rimane vittima della sua gioiosa e poetica follia. Quello che voglio dire è che se non si cambia mentalità, c’è poco da sperare.

Tu hai detto che solo un ottimista come te poteva fare un film così pessimista. Puoi spiegare meglio questo concetto?

Essere ottimisti significa credere ancora in se stessi e negli altri. Se non fossi un ottimista non sarei riuscito a realizzare un’impresa come quella di produrre il film. Inoltre credo che un pessimista non possa avere la lucidità dello sguardo necessario per guardare in faccia la realtà. Può tutt’al più analizzare gli eventi ma gli rimane difficile renderli metafora come penso sia l’arte di raccontare una storia.

Dal punto di vista stilistico hai fatto una scelta di sobrietà ed asciuttezza. E’ solo una questione di budget, o pensi che questa staticità, per altro densa di movimento emotivo, fosse la strada giusta per la più alta espressività?

Già avevo scritto la sceneggiatura con uno stile sintetico e asciutto. Naturalmente tutto si è snodato in una serie di compromessi tecnici e produttivi che hanno poi sviluppato scelte necessarie. Scelte che mi hanno spinto comunque a superare limiti e costrizioni verso una ricerca formale coerente alla storia che avevo scritto e che volevo raccontare. Un percorso creativo con uno stile e un linguaggio espressivo in grado di narrare tutti i passaggi di una vicenda così complessa e tortuosa. Ho cercato il rigore e l’essenzialità della messa in scena a favore dell’espressione emotiva dei personaggi. Anche le stesse sgrammaticature, o la necessaria sintesi di sintassi e inquadrature in alcune scene, sono diventate poi il risultato di una ricerca di stile. Quello che a me soprattutto importava era di non scadere nell’ovvio, nella superficialità e tanto meno nella retorica. Tengo a dire che se sono riuscito in questo, lo devo anche alla partecipazione e complicità del cast e della troupe che si è sentita parte di un progetto urgente e necessario condividendo in toto l’impresa.

Il finale del film è nato da subito così? Ne hai mai pensato prima un altro? Hai mai pensato di dare una speranza a Gregorio e agli spettatori?

Onestamente no, non era nelle mie intenzioni dare speranza, né tanto meno alleggerire la tragedia.
La mia posizione non è cinica o sadica, assolutamente, ma di rispetto nei riguardi dello spettatore. Non volevo in alcun modo essere ruffiano soprattutto in una storia come questa. Spero che lo spettatore possa riflettere sui vari livelli di lettura che il film propone.

Il cristianesimo veicola valori opposti a quelli che mandano in tilt Gregorio. Nel film abbiamo due sequenze nelle quali la Chiesa si avvicina al protagonista. Sulla panchina c’è un tentativo di evangelizzazione, forse maldestro, che infatti non va a buon fine, e più tardi Gregorio entra in chiesa, ma ne esce senza alcun risultato. Ci racconti queste sequenze? Come mai le hai inserite?

Ti ricordo che Gregorio si ferma a guardare anche il monumento a Mazzini, laico e repubblicano, padre della patria. Si potrebbe dire che non sa più a che santo votarsi. Aldilà di una mia ironica visione di questi tentativi di avvicinamento alla religione, ricordiamoci che tutti noi siamo comunque legati per formazione ed educazione al cattolicesimo che volenti o no, salta sempre fuori soprattutto nei momenti disperati. Entrando in chiesa e attraversando la lunga navata, Gregorio forse spera in una grazia tardiva dal cielo che lo riporti al suo posto, oppure è solo bisognoso di pace. Non è certo una questione di fede, ma di un substrato culturale che emerge dal desiderio di uscir fuori dal dolore che opprime e soffoca ogni attività. “Non scappare fratello, Dio ti ama!” Più che una benedizione, sembra un anatema. Da parte mia c’è diffidenza e sospetto verso una religione che pontifica su scranni d’oro sulla disperazione e miseria umana.

Il finale del film vira verso l’onirico. E’ probabile che egli sogni soltanto di compiere un gesto terribile. Senza entrare nella trama, riesci a spiegarci questo rapporto tra realtà e fantasia?

Essendo incapace di compiere alcun atto concreto e definitivo che possa in qualche modo vendicarlo o placare la propria sofferenza, l’immaginazione è l’unica possibilità che gli rimane. L’unico modo con cui scatenare e sfogare le proprie frustrazioni. L’immaginazione permette a me di sospendere la vicenda di Gregorio con un pesante punto di domanda: - “ E adesso, che succede?


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