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Incontro con David Grieco

Pubblicato il 8 maggio 2004 da Mazzino Montinari


Incontro con David Grieco

Andrej Romanovic Chikatilo potrebbe essere uno dei tanti russi, disorientato e a metà del guado, che ha vissuto i fasti e poi la disgregazione dell’Unione Sovietica. Il punto è che se a quel nome aggiungiamo l’appellativo per cui è conosciuto in tutto il mondo, il mostro di Rostov, Chikatilo assume le inquietanti forme del serial killer, della minaccia fantasma, di colui che senza alcun motivo logicamente comprensibile è stato capace di colpire nella più totale invisibilità, mescolato tra gli uomini, così lontano dal senso comune, eppure così orribilmente vicino.
A circa dieci anni dalla scoperta degli omicidi in serie di Andrej Romanovic Chikatilo e dal conseguente processo, è in fase di ultimazione
Evilenko, la storia di un serial killer che uccise più di cinquanta bambini poco prima che crollasse l’Unione Sovietica. Protagonisti del primo lungometraggio di David Grieco, sono Malcolm Mc Dowell nel ruolo di Chikatilo/Evilenko e il promettente Marton Csokas che interpreta l’investigatore che dà la caccia al mostro di Rostov.
A Courmayeur, il giornalista e scrittore ha presentato un backstage/dossier di Evilenko e ha raccontato la sua prima esperienza da regista.

“Se la presenza d’un bambino dà effettivamente un altro giro di vite, che ne direste di due bambini?”
“Diremmo effettivamente - esclamò qualcuno - che sarebbero due, i giri di vite. E poi che vogliamo conoscere la storia”
(Henry James, Giro di vite, Einaudi 1995, p. 4).

Vale anche per te quello che ha scritto James in Giro di Vite? Hai incontrato persone che volevano conoscere la storia di 55 bambini uccisi da un serial killer?
“Non direi. Ho cominciato a interessarmi al caso di Andrej Romanovic Chikatilo nel 1992 da giornalista seguendo il processo sul posto. In seguito ho scritto un libro, Il comunista che mangiava i bambini. Infine, ho pensato di fare un film, Evilenko. A quel punto non è stato affatto semplice trovare un produttore disposto a finanziare questo progetto. Le mie motivazioni non erano facilmente vendibili. La storia del serial killer è appetibile, ma nessuno voleva saperne di una storia che prevedeva la morte di decine di bambini. 55 piccole vittime sono un motivo per scappare. Ogni volta che presentavo la sceneggiatura mi veniva suggerito di modificare la trama mettendo al posto dei bambini delle prostitute. Io ho tirato dritto per la mia strada finché non ho incontrato Mario Cotone con il quale sono entrato subito in sintonia. E così è partito il progetto”.

Perché hai incontrato questo ostracismo?
“La realtà è che nessuno vuole trattare seriamente e con coscienza il tema della pedofilia. È come se si avvertisse un fastidio misto a terrore per l’infanzia che è giudicata come qualcosa di ingombrante. Per cui, da un lato abbiamo i carnefici di bambini, dall’altro un’umanità sostanzialmente disinteressata a risolvere il problema. La nostra epoca è stata segnata dai progressi fatti in campo medico e biologico. L’uomo pensa alla propria vita e al modo per prolungarla all’infinito attraverso trapianti di organi, magari estirpati proprio ai bambini. Siamo diventati egoisti e non crediamo più che l’esistenza continui attraverso i nostri figli”.

Cinema, giornalismo e letteratura, tre discipline che hai praticato nella realizzazione di Evilenko. Eppure quando ti viene chiesto il motivo per cui hai voluto fare questo film, sottolinei il fatto di essere un comunista.
Con il caso Chikatilo, che mi ha già impegnato per circa 12 anni, tutte le strade che ho percorso si sono incrociate. Tuttavia, credo che il movente più importante sia appunto il mio essere da sempre un comunista. Questa è la storia di due personaggi: due comunisti. Il mostro e l’uomo che gli dà la caccia. Quest’ultimo è un comunista come tanti ce ne sono stati in Europa e in Italia. È un orfano che tuttavia non prova alcuna nostalgia per l’ideologia. Continua a intendere il comunismo come una linea d’ispirazione etica e a vivere un sogno che nonostante tutto credo sia giusto coltivare anche oggi”.

Il caso Chikatilo è anche un modo per narrare la fine dell’Unione Sovietica e dell’esperienza del socialismo reale?
Le vicende del mostro di Rostov, sono legate alle sorti della Russia comunista. Il mio film vuole analizzare il declino di una società che dopo la disgregazione ha svelato ogni sorta di orrore, compreso quello di un serial killer che ha ucciso più di cinquanta bambini. Bisogna considerare che il processo a Chikatilo è iniziato nel maggio ’92. Alla fine di quell’anno crollava l’Unione Sovietica. Attraverso questa storia particolare, quindi, ho cercato di ricostruire il sentimento di quell’epoca. Ho voluto rappresentare il grande disorientamento che regnava tra i russi. Per settant’anni ci sono state generazioni nate e morte nell’URSS. Nel bene e nel male il comunismo era un modo di vivere, l’unico conosciuto. Improvvisamente con la politica della trasparenza, milioni di persone sono entrate in una sorta di schizofrenia collettiva. Hanno perso la loro identità. E Chikatilo è un simbolo estremo di questo passaggio”.

Perché quello del serial killer negli anni si è trasformato in un vero e proprio genere cinematografico?
I film con protagonisti gli assassini seriali hanno liberato gli autori dalla necessità di trovare un movente ai delitti. Il serial killer ti fa lavorare per immagini abbandonando la necessità di seguire un percorso razionale. Quello che mi preme mostrare è cosa succeda nella mente di un uomo. E aggiungo che tutto ciò non deve necessariamente coincidere con la grande esplosione di sangue”.

Alex Infascelli, Eros Puglielli, Roberto Andò, e poi il tuo film e quello tanto atteso di Dario Argento. È la rinascita di un cinema di genere che sembrava dimenticato?
A parte Dario Argento che fa storia a sé, oggi si sta verificando una vera e propria nascita del cinema di genere. E il punto di partenza è come al solito la letteratura. I francesi hanno avuto una forte letteratura di genere e di conseguenza anche un cinema noir originale. Oggi, in Italia abbiamo degli ottimi scrittori che possono trainare il cinema verso direzioni poco esplorate. L’esempio di Io non ho paura è da seguire per semplicità e rigore, una piccola storia che sta facendo il giro del mondo. È la dimostrazione che si possono fare film senza grandi effetti speciali. Quello che conta alla fine sono le idee.

[dicembre 2003]


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