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Incontro con John Landis

Pubblicato il 25 febbraio 2011 da Sofia Bonicalzi


Incontro con John Landis

Milano 2011 - Nell’anno del Signore 1828 sulla piazza di Edimburgo, centro nevralgico della medicina sperimentale, dottori e ciarlatani di ogni risma si dividono la scena, cercando di sfuggire al conservatorismo delle autorità o all’opprimente “protezione” dei signori del crimine organizzato. In un mondo in cui la sopravvivenza è un lusso per pochi e la muffa può essere ancora spacciata per un rimedio miracoloso, perché i lumi della ragione possano risplendere è necessario che qualcuno si accolli il lavoro sporco, per denaro certo, o forse per amore. John Landis recupera lo spirito ironico e pungente delle commedie dark all’inglese (del genere Sangue blu o La signora omicidi), per raccontare la storia (tutta rigorosamente vera, eccezion fatta per le parti che non lo sono, come recita la didascalia introduttiva) di Burke e Hare, due irlandesi truffaldini che tentarono la fortuna avviando un improvvisato ed esilarante business della morte. Per rifornire di cadaveri freschi (a suon di cinque sterline per ogni sfortunato destinato alla dissezione) il dottor Knox, spregiudicato anatomista all’avanguardia, Burke e Hare batteranno le strade di Edimburgo alla ricerca di defunti di giornata, per poi arrivare alla conclusione che il sistema più comodo per fare affari è senz’altro quello di dare una mano al destino.
Se, tra le atmosfere nebbiose e i vicoli scuri di Edimburgo, il pensiero corre subito a Jack lo Squartatore, Landis trasforma i due assassini seriali in una coppia di guitti (ma Burke, che spende una fortuna per finanziare una versione del Macbeth tutta al femminile per la sua adorata Ginny, assume quasi l’aura di un eroe romantico) che si muovono in equilibrio pericolante all’interno di una commedia tinta di cinismo e di spirito farsesco, che (pur lontana dai ritmi perfetti dei primi capolavori) non lascerà delusi i suoi ammiratori più esigenti. _ Che si tratti dello studio del dottor Knox, del teatro dove Ginny declama i versi dell’amato Shakespeare, o di un palco allestito per l’impiccagione, ogni tempo e ogni luogo sembrano reclamare il proprio pubblico e forse, a modo loro e del tutto involontariamente, in un film lontano anni luce da ogni forma di cupo moralismo, anche Burke e Hare possono essere considerati dei benefattori.
Giunto a Milano proprio per presentare Ladri di cadaveri. Burke & Hare, John Landis ha incontrato la stampa nella cornice della Galleria d’arte contemporanea, accompagnato da Massimo Finazzer Flory (assessore alla cultura del comune di Milano) e da Vania Traxler Protti (distributrice italiana del film).
Ad esordire è Finazzer Flory: «Solo John Landis poteva concepire un film come questo, che si colloca sullo sfondo dell’illuminismo scozzese e ne coglie le contraddizioni, analizzando il rapporto tra leggi e istituzioni, tra potenti (gendarmi e criminali) e gente comune, tra scienza e superstizione sullo sfondo di un’età di transizione e di progresso, ma anche di ombre e di lati nascosti. Landis intreccia commedia e atmosfere da film horror, storia e caricatura, restituendoci la luce, i colori, la temperatura di un’epoca con estrema accuratezza e precisone».
Landis, che sembra un signore simpatico, ma ha pur sempre l’aura di una leggenda vivente (forse un po’ appannata nelle ultime due decadi), interrompe l’assessore, perché non si dimentichi di sottolineare che il film è anche, soprattutto, una commedia grottesca e divertente (funny). A proposito di atmosfere d’epoca, il regista prende la parola: «Ieri ho visitato una buffa mostra alla Triennale di Milano sull’uso dei cappelli nel cinema. Fra le varie icone c’era anche Indiana Jones, di cui tra l’altro mia moglie ha disegnato i costumi: riusciremmo a immaginarcelo senza il suo copricapo? Mi interesso sempre moltissimo degli aspetti connessi con i costumi e le scenografie, ritengo che un film comico funzioni meglio se ambientato in un contesto reale o comunque realistico. Animal House si svolge nel 1962 e, in quel caso, il lavoro di ricostruzione è stato molto accurato, ma per Burke & Hare la faccenda si è rivelata più complessa. Ci siamo tuffati nelle biblioteche e negli archivi, me ci sono poche testimonianze iconografiche della Edimburgo dell’epoca, e gran parte delle location, come nel caso di West Port, oggi sono state radicalmente trasformate. Fortunatamente spesso abbiamo potuto girare negli spazi reali, ovviamente il Castello di Edimburgo è sempre rimasto al suo posto».
«A suo modo ogni film è in costume – aggiunge Landis – e, paradossalmente, le ambientazioni più difficili da ricreare, in modo che non risultino artificiose, sono quelle contemporanee: per Una poltrona per due il lavoro è stato altrettanto faticoso, ma gli Oscar per i costumi vengono quasi sempre assegnati ai film storici o a quelli di fantascienza. La percezione di un film comico da parte del pubblico è sempre un po’ alterata: quando ho presentato in Italia Oscar – un fidanzato per due figlie, la domanda che mi è stata fatta più di frequente è se fosse il mio primo film costume. In ogni caso, come faceva intendere una battuta de Il mago di Oz (“Non fate caso all’uomo dietro al sipario”), l’importante è che tutto sembri naturale». Poi, divertito, aggiunge: «a proposito di scenografie, ieri sera sono stato a cena da Ezio Greggio e questa stanza [quadri, marmi e ori a profusione, ndr] assomiglia al suo bagno per gli ospiti. Pare che la televisione paghi bene in Italia!»

C’è qualche film in particolare, uscito di recente, che ha apprezzato dal punto di vista della ricostruzione d’ambiente?

J. Landis: «Ritengo The social network un ottimo film. È stato girato per la maggior parte in un teatro di posa, ma nessuno se ne accorgerebbe. Quando ho realizzato The Blues Brother, mia moglie, che è stata la costumista di molti miei film, mi ha avvertito subito che se avessi voluto trasformare i due protagonisti in icone, avrei dovuto dar loro un aspetto che fosse riconoscibile anche mostrandone solo la silhouette. Se ci pensate è così per Stan Laurel e Oliver Hardy, Indiana Jones o Charlot: ecco come sono nati i costumi di John Belushi e Dan Aykroyd».

Una domanda per Vania Traxler Protti: in che modo la Archibald Enterprise Film si è aggiudicata la distribuzione italiana del film?

V. Traxler Protti: «Ho visto il film per la prima volta l’anno scorso a Cannes e me ne sono semplicemente innamorata. Non è facile per una piccola casa di distribuzione aggiudicarsi un film di Landis, ma tutti i giorni, per una settimana, non mi sono data per vinta e alla fine siamo riusciti a firmare per primi il contratto. Per l’invidia di tutti gli altri».

In che modo è stato affrontato il tema della lingua e quanto del senso del film non potrà essere restituito dal doppiaggio?

J. Landis: «Nel film la maggior parte dei personaggi [accuratissima, come sempre nelle opere di Landis, la galleria delle figure secondarie, molte delle quali interpretate da eccellenti caratteristi o grandi attori della vecchia guardia, fra cui spicca il moribondo interpretato da Christopher Lee, ndr] parlano un anglo – scozzese dall’accento marcato, mentre i due protagonisti provengono dall’Irlanda del Nord, sono in questo senso degli outsider. Mi hanno riferito che il doppiaggio italiano del film è ottimo, ma non credo di essere in grado di giudicarlo. Quando i film vengono distribuiti nei vari paesi, il regista ne perde di fatto il controllo. Come disse una volta William Friedkin:«solo il proiezionista ha il vero final cut». In ogni caso considero il doppiaggio molto importante per il successo commerciale di un film. Pensate che in Francia c’era un attore che, a partire dagli anni ’30, aveva doppiato tutti i film di John Wayne. Quando Wayne vinse l’Oscar per Il Grinta, quest’attore chiese a sua volta un cachet più alto, ma venne licenziato. Il film di Hathaway uscì in Francia con un doppiaggio diverso e risultò un fiasco clamoroso (la gente usciva indignata dal cinema, lamentandosi che quello che si muoveva sullo schermo non poteva essere John Wayne). I produttori finirono per ritirare il film e richiamare il vecchio doppiatore, che naturalmente chiese un sacco di soldi».

Quanto c’è del romanzo breve di Stevenson (Il ladro di cadaveri) nel suo film?

J. Landis: «Quella di Burke e Hare è una storia vera, che Stevenson ha elaborato e romanzato. Dalla sua novella sono stati tratti svariati adattamenti cinematografici, tra cui uno di Robert Wise con Bela Lugosi e Boris Karloff [La jena, 1945, ndr], quasi tutti in chiave horror. In base alle mie ricerche, sono almeno quattordici i film (uno è stato scritto addirittura da Dylan Thomas) più o meno direttamente ispirati a questa vicenda, che in Scozia è abbastanza conosciuta. Il mio soggetto si basa sui fatti reali, non sul romanzo: mi divertiva l’idea un po’ macabra di trasformare questa storia di sopravvivenza, denaro e morte in una specie di commedia romantica».


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