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Incontro con Matteo Garrone

Pubblicato il 26 febbraio 2011 da Simone Isola


Incontro con Matteo Garrone

Dopo gli appuntamenti con Ferzan Ozpetek e Theo Angelopoulos, la Scuola Nazionale di Cinema ha ospitato un interessante incontro tra il regista Matteo Garrone e gli studenti dei vari corsi. Interessante non solo per i temi trattati ma per il clima piacevole e informale creato in sala con un grande autore del nostro cinema non sempre avvezzo a raccontarsi in pubblico. Impossibile riportare tutti i temi emersi nel dibattito, che ha investito tutti gli ambiti del lavoro del regista romano.

Alcuni tuoi film prendono spunto da alcuni fatti di cronaca. Qual è il filo conduttore delle tue storie?

Ogni storia ti suggerisce delle immagini diverse. Lo spunto di cronaca da cui è nato Primo amore non presentava un orafo tra i protagonisti; l’idea mi è venuta vivendo per un periodo a Vicenza e sentendo parlare Trevisan che era sposato con un’orafa. Mi affascinava l’immagine dell’oro che modella un corpo. Ecco, se devo pensare a un filo comune nei miei lavori penso al corpo, alla fisicità. Un corpo che viene trasformato, modellato. Forse ciò è riconducibile alla mia formazione pittorica. Io cerco di legarmi profondamente ai personaggi e, anche se fanno scelte che non condivido, devo conoscerli sino in fondo, devo capirli. E infatti Primo amore fu un film devastante. Mi buttai con l’incoscienza di quegli anni e non mi resi conto della durezza del film che stavo girando. E’ stato un film molto impegnativo, anche su un piano personale. Mi ha lasciato stordito per anni.

Come organizzi di solito le riprese?

Io giro in sequenza, rispettando l’ordine dalla prima scena all’ultima scena in sceneggiatura. Ciò aiuta molto gli attori nell’interpretare l’evoluzione dei loro personaggi; le prime scene quindi sono le più delicate proprio perchè gli attori devono “entrare” nel personaggio, ed io devo guidarli anche se ho ancora qualche indecisione. Ricordo che Mahieux (protagonista de L’imbalsamatore) nei primi giorni di riprese "caricava" molto la recitazione, e abbiamo dovuto lavorare moltissimo. Quelle riprese le ho buttate, ma è un lavoro risultato prezioso in seguito. Nei preventivi dei miei film c’è sempre una voce che indica il possibile ritorno sul set per rigirare alcune scene. Se ciò non si rivela necessario, il produttore ha risparmiato su una voce dei costi. Non è un metodo dispendioso, basta organizzarsi bene in fase di preproduzione. Io non ho mai sforato tempi e budget di lavorazione. Nel caso di Gomorra avevo solo poche settimane, due per ogni episodio; era più difficile ingranare subito con la singola storia, e rigirare una seconda volta è stato essenziale.

Come valuti l’apporto degli attori nei tuoi film?

Il rapporto con gli attori è fondamentale. Nei miei film spesso c’è una commistione tra professionisti e non. Molti lavorano a teatro e sono per questo sconosciuti al grande pubblico. Il protagonista de L’imbalsamatore è stato scritto prima di trovare l’interprete. Poi una sera a cena alcuni attori mi dicono di conoscere un loro collega napoletano. Mi faccio dare il numero e lo chiamo. Sento dall’altra parte del telefono l’euforia per la chiamata del regista romano, a tarda sera… Parto per Napoli con Massimo (Gaudioso, cosceneggiatore) e vengo accolto in casa. Nel soggiorno c’erano moglie e figli, desiderosi di ascoltare la proposta che veniva fatta ad Ernesto (Mahieux, n.d.a.). Noi l’abbiamo presa alla lontana, iniziando col dire: “È una storia d’amicizia…”.

Sei uno dei pochi autori che si pone fisicamente dietro la macchina da presa. Dove nasce l’esigenza di svolgere il ruolo di operatore nei tuoi film?

Quando giro vado in una sorta di trance, con l’attore si crea quasi una sorta di danza. Mi piace cogliere dei particolari momenti, ad esempio il movimento di una mano. Sono attimi quasi sempre unici, che non si ripetono. In passato ho provato a delegare ad altri la ripresa, ma così facendo trovavo grosse difficoltà nel cogliere queste situazioni. Spesso stando in macchina, vivendo una scena emotivamente, vengo stimolato a nuove idee. Inoltre percepisco subito quando l’attore sta dentro o esce dal personaggio. Se sento che uno degli attori cala vado sull’altro e poi magari torno su di lui. Faccio una sorta di montaggio durante la ripresa. L’attore "sente" la macchina, ma sono io che lo seguo. Io non mi accorgo neanche di avere la macchina sulle spalle. Spesso finisco il rullo e mi dico: “Sono già passati 12 minuti?”.

La fotografia di Gomorra è più sporca rispetto a quella di alcuni tuoi film precedenti.

In Gomorra sentivo che la materia che trattavo era così delicata che qualsiasi artificio stonava, così abbiamo eliminato anche la colonna sonora. Non volevo cadere nel rischio di compiacimento. Il mio riferimento era il Rossellini di Paisà. Volevo quasi sporcarla l’immagine. L’imbalsamatore prevedeva un lavoro diverso, non volevo restituire l’idea di un documentario, di una continua soggettiva come in Gomorra. Nel prossimo film vorrei sviluppare altri riferimenti, è un’altra storia.

Il tuo rapporto con il digitale

Non ho particolari pregiudizi, anche se ho iniziato il mio lavoro girando in pellicola. Ho fatto dei provini con Alexa, la nuova macchina digitale della Arri. Sono rimasto molto soddisfatto dei risultati, anche se resto un nostalgico della pellicola. Infatti il prossimo film lo girerò con una Arri Lite, in 2P. Il digital intermediate risolve i problemi che c’erano fino a qualche anno fa nel girare con pellicola a due perforazioni al posto delle classiche quattro. Si risparmia metà del supporto e ogni chassis dura il doppio.

Non hai mai avuto timori nel girare Gomorra in ambienti dal vero?

In realtà non ho avuto particolari problemi. Quando ho iniziato a lavorare al film il libro di Saviano non era ancora diventato un caso e l’autore non era stato minacciato di morte dalla Camorra. Se devo essere sincero, non ho avuto particolare paura neanche durante le riprese. Si ha paura dell’ignoto, di solito; quando entri in certi ambienti bisogna capire al volo i meccanismi, certi codici di comportamento. Io non volevo fare un film pro o contro la Camorra, volevo fare un film sulla Camorra. Mi sono approcciato a quei luoghi senza alcun intento sociologico e di denuncia; l’elemento più forte che ho riscontrato è il quotidiano convivere di vitalismo e senso di morte incombente. È un qualcosa che respiri, anche se in fondo fa più paura dall’esterno che quando stai lì. Io volevo cogliere il lato umano di questa realtà, le vite condizionate dal sistema e che si trovano imprigionate inconsapevolmente in tali dinamiche. L’aver evitato un’impostazione moralistica ha aiutato a non generare incomprensioni con la gente del posto. Ricordo che avevo venti/trenta persone dietro il monitor a osservare attentamente, qualcuno mi dava anche qualche consiglio. Era curioso vedere se si riconoscevano nella rappresentazione che stavo dando di loro o se suonava falsa.


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