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Intervista a Dante Spinotti

Pubblicato il 18 aprile 1997 da Alessandro Borri


Intervista a Dante Spinotti

TRA CARAVAGGIO E KANDINSKJ Micheal Mann da Manhunter a Heat Intervista a Dante Spinotti Perché Michael Mann ha scelto lei, un direttore della fotografia italiano, da Manhunter in poi?

Allora ero stato chiamato da Dino de Laurentiis perché cercava dei collaboratori per una società in North Carolina, la DEG. De Laurentiis mi aveva chiamato per fare un film chiamato Tai-Pan con Daryl Duke. Lui non mi aveva ritenuto abbastanza esperto in effetti speciali. De Laurentiis mi disse: Non ti preoccupare Dante, abbiamo un’altra cosa anche più interessante, ti metto con Mann. Lui doveva fare questo thriller tratto da un romanzo di Thomas Harris, The Red Dragon. Ci siamo incontrati in Carolina e ci siamo trovati subito simpatici. Mann è un personaggio estremamente serio nel preparare e nel girare i suoi film, molto concentrato, a livelli quasi religiosi, trascendenti. Abbiamo cominciato a girare: riprese molto difficili, perché per me era il primo film in America. Avevamo una troupe metà italiana e metà americana; l’organizzazione di De Laurentiis a quei tempi era nuova, aveva molte lacune, quindi il film divenne una battaglia. Fu per me un’esperienza straordinaria, un approccio brutale al cinema americano. Si lavorava moltissime ore: il film non era legato a contratti sindacali, quindi c’era la possibilità di espandere gli orari di lavoro. Si girava delle notti intere dal tramonto all’alba: era anche un vantaggio, perché si potevano cogliere dei momenti di luce molto belli. Lì ebbi il tempo di capire come funzionava il cinema americano e soprattutto quello di Mann: un cinema pensato fino all’ultimo dettaglio nella testa di Michael, che poi ha bisogno di un’assoluta precisione in ciò che ha davanti alla macchina alla presa. Lui dà un’enorme importanza all’aspetto formale: il suo modo di raccontare è talmente teso che la ricerca dell’inquadratura diventa molto attenta, molto precisa, molto profonda. A volte tiene lì l’intera troupe, anche gli attori, fino a che non è contento di come mette le sue macchine da presa. Uno degli elementi fondamentali del suo cinema è la dinamica: la semplicità apparente e la grande morbidezza dello svolgimento. Gli elementi di arredamento sono importantissimi, costruiscono la tensione della scena, convogliano attraverso i più piccoli dettagli il senso di quello che si vuole raccontare. L’insieme dei colori deve essere studiato con attenzione: c’è una psicologia interna del colore che porta certe emozioni, che sono legate anche a come la macchina si muove, a cosa fa l’attore. E’ un incastro molto stretto che lui porta quasi all’astrazione. E’ come se Mann guardasse una scena di Caravaggio e andasse a leggerla come fa Kandinskj. Ma viene fuori anche una grandissima morbidezza: all’interno di questa estetica quasi fredda c’è un fluire bello, umano. E c’è anche un sacco di pensiero dietro al cinema di Mann. Per Heat mi ricordo che aveva sempre davanti a sé due grossi libroni di sue note, dettate al registratore e poi trascritte, note per la scenografia, la fotografia, raccolte durante la ricerca dei posti, che per Mann sono sempre estremamente complesse. La location è per lui fondamentale perché deve portare, non attraverso il realismo ma attraverso qualcos’altro, a una situazione di emozione, di tensione.

In Heat c’è una specie di record delle locations. Mi pare fossero quasi un centinaio.

Per riuscire a fare quel film facevamo i salti mortali. Mi ricordo che una notte abbiamo girato nella Valley, la parte nord di L.A., al di là delle colline di Hollywood, fino alle 3.30-4.00. Poi tutti in macchina: abbiamo fatto cinquanta chilometri fino al porto, che è San Pedro, per girare le corse in macchina di Pacino e De Niro. Arrivammo dall’altra parte trovando tutto pronto, macchine e luci già preparate, sapendo cosa girare, perché Michael aveva dei quadri molto pensati, quindi si arrivava e dopo mezz’ora si iniziava a girare. Mann ha questa capacità di far succedere cose muovendo grandi mezzi, agendo con semplicità, perché non è un regista che urla. E’ sempre estremamente teso nella sua concentrazione, ovviamente circondato da collaboratori molto validi come il suo primo assistente alla regia Michael Waxman. Ha una mente capace di lavorare una quantità enorme di ore al giorno, di coordinare, di tener presente tutta una serie di dettagli.

Mi viene in mente Antonioni, come riferimento cinematografico, per questa tensione del vuoto, questa precisione dell’inquadratura.

A me quest’avvicinamento non mi viene in mente, anche se pensando alle sequenze finali dell’Eclisse... Bisogna considerare che Mann è un regista inserito in un sistema, i suoi film devono incassare, ma, come si dice, è un regista autore. Io non credo nel cinema d’autore, credo che il cinema si divida in buono e cattivo cinema. Tutto nel cinema è relativo: ci sono film che costano 3 miliardi e film che ne costano 60, ma relativamente la responsabilità è sempre la stessa. Ci sono a Hollywood dei registi, Mann è un esempio, che, nonostante siano inseriti nel sistema, fanno i film che vogliono loro. Questo anche perché lui, con dei film di successo, è arrivato ad acquisire un certo potere, specialmente dopo l’Ultimo dei Mohicani e Heat. La critica italiana continua a vedere Stone o Scorsese, dimenticandosi spesso di Mann. Scorsese e Stone hanno fatto due film lunghi usciti in un periodo simile a quello di Heat e sono stati un disastro commerciale. L’unico che ha fatto un film, che era poi il film che voleva fare, senza i condizionamenti dello studio né degli attori, ed ha avuto successo, è Mann. Un’altra delle sue capacità è quella di gestire gli attori: in maniera sempre molto collaborativa (c’è questa cosa, in America, che i registi fanno il film in collaborazione con gli attori), però la sua preparazione sul film è tale che poi gli attori facevano quello che diceva lui. Siccome Michael è così acuto, preciso in quello che fa, non c’erano mai problemi sul set, anche se i ciak erano moltissimi, 15-20 ciak, 30 magari: fintanto che tutte le battute non erano come le pensava lui non si andava oltre. E’ un perfezionismo che è tipico del cinema americano: gli investimenti sono alti, si vuole che ogni cosa sia fatta bene e, se si va a dei compromessi, si cerca di fare dei compromessi scenici o visivi, mai di recitazione, perché la recitazione è lo strumento principale con cui passa la storia.

Gusmano Cesaretti è un altro nome italiano che ricorre spesso nei titoli dei film di Mann. Qual è effettivamente il suo ruolo?

Gusmano è un amico, sia di M.M. che mio, da molto tempo. E’ un toscano di Lucca che si è spostato a L.A. molti anni fa. Faceva il fotografo quando incontrò Mann, che capì il suo talento. Gusmano ha sempre collaborato con Michael alla realizzazione dei suoi film. La sua funzione è in generale quella di un grande lavoro fotografico di preparazione: la fotografia di tutti gli ambienti, di tutte le alternative possibili, di ogni dettaglio, facendo una serie di pannelli su tutto quello che riguarda il film, dai costumi ai volti alla scelta dei personaggi a gente trovata per la strada. In Manhunter curò la grafica di alcune fotografie spaziali di cui era arredata la casa dell’assassino. Nell’Ultimo dei Mohicani si occupava della presenza degli indiani. Erano veri indiani di varie tribù assunti in tutta l’America del Nord, compreso il Canada. E’ stata fatta una ricerca accuratissima, le divisioni delle varie tribù erano storicamente corrette. C’era un gruppo centrale di 10-12 stunt-man che avevano preparato delle azioni molto precise mesi prima di cominciare il film, poi man mano delle semplici presenze, ma ognuno sapeva la sua posizione. Vivevano in un campo trovato in Carolina vicino ai luoghi dove avvenivano le riprese. Gusmano si occupava di ogni minimo dettaglio. Il piccolo trucco che aveva in testa Magua, per esempio, tutti gli oggetti che avevano in scena, le armi, come erano vestiti. Erano indiani molto diversi da quelli che si è abituati a vedere al cinema. Questa ricerca accurata è una cosa che Gusmano fa per Mann anche nei programmi televisivi che lui produce. In Heat per la prima volta è stato promosso produttore associato, e anche lì si occupava del background estetico-formale di verità che Mann ricerca sempre per i suoi film.

Prima che uscisse Heat c’era il progetto di un film su James Dean.

Era un grosso progetto di cui avevo letto il copione, un film impegnativo, molto ben scritto. Mentre stavo girando Pronti a morire con Sam Raimi dovevamo fare i provini con Leonardo di Caprio. Mann ha una serie di progetti, 8-9, forse sei di questi diventeranno possibili. Sono progetti che porta avanti lui stesso, che scrive con gente che sceglie per collaborare con lui. E’ uno che preferisce partire da un’idea sua, portando agli studi dei pacchetti già completati, ecco perché fa pochi film. C’è una lunghissima trattativa perché è uno che esige poi la totale indipendenza quando fa i film. Durante l’Ultimo dei Mohicani c’era il capo della produzione alla Fox che spingeva Michael a girare strettamente il copione. Alla fine Michael mi disse: Guarda, se questo film va bene, al prossimo non troverai nessuno che viene a rompere quando si gira. E così in effetti fu con Heat: nonostante i produttori fossero più d’uno, nessuno si intrometteva.

Naturalmente nei film di Mann colpiscono le scene d’azione. Come sono state realizzate?

Abbiamo usato fino a 18 macchine da presa nella scena di Heat in cui il camion attacca il portavalori, comprese tre macchine lipstick video che abbiamo nascosto nel camion. E’ stata girata una volta sola. Il montaggio del momento dell’impatto poi è avvenuto con 5-6 inquadrature. C’era un meccanismo particolare: il camion doveva venire avanti a 25 miglia all’ora, quando colpiva il portavalori esplodevano due cariche che facevano saltare all’interno due bulloni e partivano due compressori che davano una grossa spinta per rovesciare il camion. Quando si metteva di fianco c’erano quattro ruote d’acciaio, per dare il senso della poderosa spinta dell’attacco il portavalori continuava a scivolare e spingeva le macchine verso l’autostrada. Grande numero di macchine da presa si è usato anche nella scena dell’attacco alla banca. Michael sa girare molto bene queste scene d’azione, dove tiene sempre presente la psicologia dei personaggi. Ha mandato gli attori a sparare al poligono di tiro con le stesse armi del film e con munizioni vere: ci sono andati per un mese, Val Kilmer, Robert De Niro e alcuni altri della banda. Così come per L’ultimo dei Mohicani Daniel Day Lewis s’era allenato per due mesi nel bosco a correre, a caricare i fucili in corsa. E’ fondamentale per Mann che ci sia una verità in quello che avviene nel film. Mi ricordo una scena dell’Ultimo dei Moicani in cui un indiano trascina le due ragazze con un laccio. Come tirava quel laccio l’indiano, ci perdemmo un’ora. Lo studio dei mortai, per l’attacco al forte: ci perdemmo una notte, perché Michael non trovava il senso della situazione. Quando l’alba è spuntata ha detto: Ragazzi, mi dispiace, ci riproviamo domani. L’indomani notte ricominciammo a girare e la sequenza secondo me è straordinaria, perché quest’attacco dei mortai con l’esplosione interna è quasi un balletto, costruito con le dinamiche di stacchi molto precisi, che parte con la preparazione del mortaio (dove c’è una ricerca per mostrare esattamente come funzionavano), con la corrispondenza dell’effetto delle bombe dentro. Mann voleva aggiungere un tocco di modernità: allora c’era stata la guerra del golfo, e lui voleva mettere la macchina da presa su una gru e farla arrivare giù, quasi che la palla del mortaio avesse le stesse caratteristiche dei missili che andavano a colpire i capannoni di Saddam Hussein. Quindi una grandissima preparazione per avere la verità di ciò che si rappresenta sullo schermo, che è doverosa per chi va a vedere un film. E’ uno degli aspetti fascinosi del suo modo di fare cinema. C’era una geometria e una geografia sia dell’attacco al forte dei francesi, che era tutto studiato sulla carta, sia dell’attacco degli indiani agli inglesi nella valle del massacro, una valle che Michael ha voluto d’erba verde e fiorellini arancioni (è stata coltivata 3-4 mesi prima del film), perché ci fosse il contrasto del massacro in questa specie di giardino. Stessa metodologia per l’attacco alla banca in Heat, dove ci preparavamo su un enorme modellino delle strade: sapevamo esattamente qual era il movimento della banda e della polizia, le posizioni della macchina, dove sarebbe stata colpita e sarebbe andata a sbattere, dove avrebbero affrontato la polizia che faceva blocco a un lato della strada. Sembrerebbe impossibile che tutta questa polizia venga messa in difficoltà da tre uomini armati. Guarda caso qualche tempo fa è avvenuta a L.A. una scena similare di attacco a una banca. I poliziotti, quando vengono attaccati da malviventi con delle armi così possenti, non sanno cosa fare, dove nascondersi.

Ci parli del finale all’aeroporto.

Il finale di Heat era complicatissimo. Eravamo tutti molto stanchi verso la fine dei cinque mesi di riprese. Giravamo alla fine della pista d’atterraggio dell’aeroporto di L.A. Il problema era che non si potevano usare luci, per non disturbare i piloti. Feci costruire una serie di carrelli, dieci per parte, dove montai delle DinoLights, grosse lampade composte da ventiquattro lampade da 1000 watt. Le avevo messe ai bordi del campo, coperte da una specie di tabernacolo di panno nero, in modo che non fossero visibili dagli aerei. Le luci arrivavano laterali sugli attori, io potevo sul movimento di macchina accenderne una, spegnerne un’altra, potevo spostare i carrelli ogni volta che venivano inquadrate dalla macchina da presa. Erano distribuiti da ambedue i lati, ne avevo uno ogni 10-15 metri, quindi coprivamo una superficie di un centinaio di metri per parte. Dovevamo essere in contatto con la torre di controllo che ci diceva se potevamo girare. Una cosa molto complessa che comunque non mi ha portato ad avere esattamente la luce che avrei voluto. Mann voleva ricostruire le luci d’atterraggio al centro tra le due piste, io l’ho convinto che l’elemento straordinario era la linea del sistema di illuminazione che partiva bassa e poi si rialzava. Facemmo alcune inquadrature col computer. Quando De Niro compare in primo piano per sparare ha dietro le luci che si accendono: era difficile sincronizzare le due cose, quindi abbiamo girato le luci a parte e poi sono state messe dietro l’attore in postproduzione.

Come mai non è stata fatta un’inquadratura insieme di De Niro e Pacino nel loro incontro al caffè?

Non sarebbe servita al film. A quel punto avevi bisogno dei volti dei due che abbiamo ripreso allo stesso tempo. Avevamo due macchine, l’abbiamo fatta in tre modi: una larga, una media, una stretta su ambedue i personaggi. Abbiamo girato quell’inquadratura laterale e una dall’alto, nessuna delle due è stata usata. Siamo andati avanti per tutta una notte. La ricerca dell’ambiente è durata moltissimo, Michael ha visionato fotografie di centinaia di posti diversi. Abbiamo finito per girare nel caffè più banale che ci possa essere a L.A., Kate Mantillini, un ambiente disegnato da un architetto che si chiama Tom Mayne, che aveva progettato anche la casa della moglie di Al Pacino. Quello che è piaciuto al regista è la qualità del bianco e nero, la scintillanza degli oggetti di consumo...

(Intervista concessa nell’aprile 1997)


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