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Intervista a Emidio Greco

Pubblicato il 13 maggio 2002 da Giovanna QuerciaGiancarlo Mancini


Intervista a Emidio Greco

GIOVANNA QUERCIA - Lei è arrivato al cinema, con L’invenzione di Morel, relativamente tardi, almeno rispetto alla media: è stata una scelta precisa, magari in virtù di una formazione che la spingeva verso altre forme, o il frutto di una difficoltà produttiva?

EMIDIO GRECO - Io sono di formazione torinese e pugliese di nascita, questa lontananza da Roma e dal cosiddetto ambiente, significava scegliere di partire e tentare il concorso al Centro sperimentale. Cosa che feci vincendolo nel giugno 1966, a giugno mi chiamarono ad insegnare alla Scuola. La mia generazione, o almeno quelli che avevano l’intenzione di fare un cinema autoriale, è riuscita a sopravvivere lavorando fuori dal cinema stesso, in televisione. Uno spazio allora ricco di spazi dedicati alla cultura, inchieste. Per Almanacco feci un ritratto di Von Stroheim, una Breve storia del cinema muto italiano. Io, Faccini, Di Carlo, Del Monte, tutti abbiamo fatto il primo film con gli enti pubblici, questo ha ulteriormente allontanato l’ingresso negli ambienti del cinema, perché nella metà degli anni settanta la produzione in Italia entra in una crisi ancora oggi in corso. Si passò da una produzione di trecento film all’anno a molto meno della metà attuale. Una sorta di generazione perduta come la definì Kezich, non riuscendo mai ad entrare nell’alveo dei produttori e a sporcarsi le mani con il pubblico. E poi anche il fatto di non esser mai voluto scendere a compromessi, unito alla non predisposizione ad un ricambio generazionale.

G. Q. - Il tema dei media è molto ricorrente nella sua filmografia da L’invenzione di Morel, una settimana ripetuta all’infinito metafora del cinema, fino all’ultimo Consiglio D’Egitto in cui la Storia è completamente smontabile e ricostruibile a proprio uso e piacere...

E. G - Nei settanta il ricorso al passato è stato molto frequente, la mia tesi è che dopo la fine degli anni sessanta, e cioè dopo il decennio in cui si rifletteva sui codici linguistici, ci si lancia nella poetica della metafora. Si avverte la difficoltà di fare un discorso totalizzante partendo da un presente frantumato ritroso ad essere raccontato nella sua urgenza, di andare oltre l’immanenza. Il distanziamento del tempo può aiutare a fare un discorso sulla contemporaneità, basti pensare ad Anghelopoulos, Kluge, i Taviani. Nel mio ultimo film la grande impostura dell’abate Vella viene scoperta, il delirio di sostituire una menzogna con un’altra menzogna, può oggi essere accostato alla realtà virtuale in cui verità e falsità si scambiano il referente e la falsità viene mitizzata.

G. Q. - A suo parere, questa capacità di fare un cinema di metafora si è estinta, almeno in Italia?

E. G. Due poetiche attraversano gli anni ottanta: il postmoderno e il minimalismo, due tendenze spesso da noi equivocate. La fine di un pensiero forte significa per me la possibilità di fare un discorso personale senza più dover aderire a schemi poetici e stilistici definiti. Da noi, però, troppo spesso dietro ai progetti c’è l’idea di usare il cinema per fare semplicemente della sociologia o della psicologia, il che rende la maggior parte dei film non dissimili da una fiction televisiva per contenuti e modalità.

G. M. - Nel Consiglio d’Egitto Che rapporto c’è tra Di Blasi, l’avvocato illuminista, rivoluzionario smascherato, arrestato e trucidato nella pubblica piazza, e l’abate Vella?

E. G. - Sono due facce della stessa medaglia, si riconoscono portatori dello stesso progetto partendo da due punti di partenza diametralmente opposti. Il Vella è colto da un delirio di onnipotenza nel corso della sua contraffazione: iniziata per mera opportunità di agiatezza, lo porta a coltivare il sogno di raddrizzare le gambe alla storia. Ed il rivoluzionario vuole fare lo stesso, risolvere le ingiustizie sociali. Sono entrambi destinati alla sconfitta. Non è un caso che Di Blasi sia l’unico a capire che il Vella un’impostore. Sono anche gli unici due personaggi della vicenda che sono vivi, in mezzo a tanti cadaveri. Una volta scoperta l’impostura, Vella vuole essere riconosciuto come l’autore del libro, come l’artista desidera imprimere all’opera la propria soggettività per renderla unica, e, paradossalmente in questo caso, renderne impossibile la contraffazione. Ma nessuno volle credergli per cui, fino al 1792, il codice del Consiglio d’Egitto fu usato come riferimento per le questioni di successione, e si trattava di una cosa totalmente inventata.

G. M. - Anche lei come Petri ha frequentato motivi e testi di Sciascia, con posizioni però completamente diverse, lei utilizza dell’autore siciliano la produzione finale, in cui la disillusione è molto forte rispetto ai fatti del nostro paese. Vuole darne una motivazione?

E. G. - Credo che fino ad un certo punto le trasposizioni delle sue opere siano state molto legate all’idea di avere di fronte uno scrittore di impegno civile. Ma questo non è che un elemento della sua produzione, Sciascia è un grande scrittore perché tenta l’operazione di mettere insieme l’idea illuministica, razionale della realtà, con un sentimento di totale disincanto che parte da Pirandello ed arriva a Borges.

G. M. - La sua frequentazione con il settecento la avvicina in un certo senso al Kubrick di Barry Lindon, seppur con un concetto di storia polarmente opposto, dove nel maestro americano essa è una macchina che distrugge e annichilisce, nel Consiglio d’Egitto è come se di questa se ne possa fare a meno, essendo contraffatta. Ė d’accordo?

E. G. - Due cose si possono osservare. In Kubrick il desiderio di rovesciare l’idea del Settecento come secolo dell’armonia si manifesta a livello tematico facendo affiorare la violenza sotto i merletti, e stilisticamente con l’uso dello zoom. Ad esempio, il dettaglio del quadro con la donna eil cane in campagna: allargando il campo si scopre un esercito che passa, e tutto nella stessa inquadratura. Per quanto riguarda i personaggi, Barry Lindon è il racconto di quest’arrampicatore sociale che, arrivato alla cima della montagna, vi scivola giù come se questa fosse di sapone; anche i due personaggi del Consiglio d’Egitto precipitano dalla montagna, il loro progetto totalizzante è destinato a fallire. In questo senso, a mio parere, i due film sono avvicinabili. Kubrick è l’unico, della sua generazione, che fa cinema senza mettere in primo piano il linguaggio; filma da una distanza enorme, come se fosse Dio, come un entomologo osserva il suo topo in un laboratorio, lui sa tutto dei suoi personaggi, situazioni, però non racconta mai né il momento psicologico né quello sociologico.

G. Q. - È da poco uscita la notizia che le pecore clonate stanno invecchiando precocemente. Qualcosa di simile avveniva anche nell’ Invenzione di Morel...

E. G. - È vero, anche se è stupefacente notare la nostra assoluta estraneità, nel ’74, anno della realizzazione del film, a concetti come virtualità, riproduzione artificiale del corpo... e la sorpresa è ancora maggiore se si pensa che la fonte originale, il libro di Casarés, è del 1941. Lì, anche se non volutamente, si parla di una realtà virtuale realizzata, il gigantesco anello che consolava Morel della mortalità.

BIOGRAFIA

Emidio Greco è nato il 20 ottobre 1938 a Leporano, in provincia di Taranto. Compie gli studi a Torino (facoltà di Economia e Commercio, non terminata) dove la famiglia si trasferisce nel 1952. Da ragazzo si interessa di teatro e pensa più alla regia teatrale che a quella cinematografica. Cambia idea e si converte definitivamente al cinema dopo aver ascoltato (intorno ai 18-19 anni) alcune conferenze di Mario Gromo, l’allora critico cinematografico de “La Stampa”. Nell’ottobre del 1964 vince il concorso per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia e si diploma in regia alla fine di giugno 1966 con un saggio d’esame di 27 minuti: Uno, due e tre. Al Centro Sperimentale insegna regia dal novembre 1966 al gennaio 1968, prima in sostituzione di Nanni Loy, impegnato nelle riprese di un film, e in seguito per incarico ricevuto. Ancora allievo del Centro Sperimentale, nell’aprile-maggio 1966 gira per la RAI, per la rubrica Cordialmente, il suo primo servizio, un “pezzo” sui costumi da bagno. Dal 1966 al 1980 realizza per la RAI numerosi programmi culturali, documentari e inchieste (non meno di una cinquantina), tra cui: Da una guerra all’altra (1976-77), sei ore sui rapporti tra economia e politica tra le due guerre; Madame Bovary sono io: una biografia di Flaubert (1977); Niente da vedere niente da nascondere (1978), un documentario sull’artista (e amico fraterno) Alighiero Boetti; L’Italia del boom (1979), un programma in tre ore vincitore del “Premio Saint Vincent” per la migliore inchiesta televisiva. Nel 1979-80 è l’ideatore e curatore di Uomini e idee del ‘900, una serie culturale in 14 puntate, di una delle quali, Nel labirinto di Borges, è anche il regista. Debutta nel lungometraggio a soggetto nel 1974 con L’invenzione di Morel, dal romanzo di Adolfo Bioy Casares. Il film partecipa al festival di Cannes nella “Quinzaine des Réalisateurs” ed è poi selezionato per numerosi altri festival. Per due anni, 1975-76, il film viene proiettato quotidianamente in 9 musei d’arte moderna tra i più importanti d’Europa nell’ambito della mostra “Le macchine celibi”. Il secondo film, Ehrengard (1982), dal romanzo omonimo di Karen Blixen, è presentato alla Mostra di Venezia ‘82. L’anno successivo ottiene il premio “Cinema e Società” per il miglior film tratto da opera letteraria. Non viene distribuito perché la Gaumont Italia, che l’aveva acquistato, fallisce. In seguito avrà una distribuzione indipendente del tutto marginale. Il terzo film., Un caso d’incoscienza (1984), soggetto originale dell’autore, è presentato alla Mostra di Venezia ‘84 nella sezione “Film per la TV”, dove riceve ottime critiche e viene richiesto da diverse società. Inutilmente la Rai, che pure l’aveva finanziato, rifiuta di dare il film in distribuzione e lo manda in onda a metà luglio, in seconda serata. Solo qualche anno dopo, quando ormai il film è considerato “bruciato” commercialmente, la Mikado riuscirà ad averlo nel suo listino. Per la televisione della Svizzera italiana realizza due programmi culturali: Vivere un’altra vita (1988), una riflessione sulla “crisi delle convenzioni cinematografiche”, e Contrabbando d’idee (1989), sul “cinema di metafora”. Nel 1991 gira Una storia semplice, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Presentato in concorso alla Mostra di Venezia, riceve il “Leone d’oro” per l’interpretazione di Gianmaria Volonté. Scelto per diversi festival, ottiene numerosi premi e riconoscimenti, tra cui: “Grolla d’oro” per l’interpretazione a Gianmaria Volonté, Ennio Fantastichini, Ricky Tognazzi, Massimo Dapporto e Massimo Ghini; “Nastro d’argento” per la sceneggiatura; “Globo d’oro” per la sceneggiatura e la musica; primo premio “Antigone d’oro” al festival di Montpellier 1992. Nel 1998 gira Milonga, uscito nel ‘99 e premiato con il “Globo d’oro” per l’interpretazione di Giancarlo Giannini. Il suo ultimo film è Il Consiglio d’Egitto (2001), ancora da Sciascia.

A cura di Giovanna Quercia e Giancarlo Mancini (Maggio 2002)


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