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Doppia Intervista a Fernando Muraca

Pubblicato il 27 marzo 2015 da Ludovico PeroniEdoardo Zaccagnini


Doppia Intervista a Fernando Muraca

Roma 25/03/2015

Abbiamo notato nel suo ultimo film, “La terra dei santi”, che c’è una particolare attenzione nel trattare il rapporto tra trama, rappresentazione e la malavita. Cosa c’è che contraddistingue “La terra dei santi” dagli altri film che parlano di organizzazioni di stampo mafioso?

Fernando Muraca: Normalmente i film di mafia son percepiti dagli stessi mafiosi diversamente da come vengono visti dallo spettatore più comune: per noi sono la lotta di un eroe contro il male, ma per il malavitoso costituisce la celebrazione dell’ennesima vittoria a fronte della morte dell’eroe.
Le organizzazioni malavitose si percepiscono come famiglia e quindi non può venire mai alla luce l’aspetto della sconfitta del singolo.
Ci son stati dei casi in cui, dopo il sequestro di domicilio, si è scoperto che studiando il comportamento dei capi mafiosi risultavano delle ricostruzioni identiche nello studio de “Il Padrino”: questa è una delle tante dimostrazioni che ci può fare intuire la potenza che ha per loro la mitizzazione dei personaggi riproposti sullo schermo.
Bisognerebbe esser più prudenti nell’utilizzare il genere mafia-movie sotto il punto di vista del mero pretesto narrativo: non si fa altro che fornire potenti strumenti di identificazione. Io percepisco la necessità di affrontarlo indirettamente, non offrendo questi strumenti di identificazione o, se li si offre, bisogna fare in modo che si sperimenti sulla pelle di chi è affiliato alla malavita l’orrore e il dolore della loro scelta morale: il ritratto di un dolore che si riflette necessariamente sulle loro famiglie e figli. Ho cercato di tenere bene in mente questi principi nello scrivere e girare “La terra dei santi”.

Perché non scegliere il silenzio e dedicarsi ad altri argomenti?

Il silenzio non serve a molto in questi casi perché è troppo doloroso.
Come accade in caso di lutto, soprattutto nelle zone del sud Italia, viene esposta una salma ed i parenti ed amici colgono l’occasione per raccontare il vissuto del defunto: introducendo nella quotidianità questo dolore, lo si rende simbolico e così lo si può affrontare.
Se abbandoniamo totalmente le persone che soffrono le angherie della malavita rischiamo di farle soffocare con la loro stessa storia: occorre parlare della piaga, ma poi si deve anche esaminarla molto approfonditamente e poi, solo in un secondo momento, si può curare con efficacia.
Tutto è nella profondità con cui si affronta una ricerca.

Per lei, quindi, il fare cinema è una forte opportunità per poter cambiare concretamente il mondo nelle sue profonde ingiustizie?

I film, in quanto tali, non dovrebbero cambiare il mondo, ma devono contribuire a gettare la luce su un determinato aspetto problematico del reale.
Io ho sentito la necessità dar voce a tutti quei calabresi che vivono il fenomeno della ’Ndragheta silenziosamente, visto che il problema non si è quasi mai affrontato sullo schermo del cinema.
La “necessità di dar voce” poi è un presupposto per l’attivazione di processi culturali necessari alla regione e che son molto sentiti dagli abitanti.
Per questo motivo è anche necessario non dividere sempre i punti di vista degli oppressi, ma cercare di sintetizzare il più possibile le varie sfumature del problema.

Nel film si parla anche del rapporto tra ’ndrangheta e religione. Viene detto che dalle vostre parti siete in fondo tutti religiosi, tanto che i greci avevano chiamavano la Calabria "la terra dei santi". Ma il giudice dice che gli ’ndranghestisti sono piuttosto dei santisti. Esattamente che cosa vuole dire?

Negli anni novanta è nata una organizzazione occulta che si chiama “La Santa” e i suoi affiliati sono iniziati sia alla massoneria che alla ’ndrangheta. Di essa fanno parte una ristretta élite di persone pericolose e deviate. Un tempo però la Calabria era costellata di monasteri greco-ortodossi che hanno generato un popolo di santi ancora molto venerati fra gli stessi ortodossi. Mi piacerebbe che la Calabria fosse conosciuta nel mondo non per i santisti, per i mafiosi, ma per i suoi santi, per tutti quegli uomini laboriosi che nella propria terra o da emigranti sanno costruire ogni giorno benessere, felicità, giustizia. Il titolo del film è un atto di speranza, un augurio, un riappropriarsi del proprio destino.

Nel suo film lo Stato non alza bandiera bianca come in altri film sulla mafia, o quantomeno la sensazione di impotenza con cui lo spettatore rimane alla fine di molti film sul tema, è qui diciamo più attenuata. È d’accordo?

Frequentemente i mafia movies non sono altro che film di genere. Io non potevo fare un film così. Ho troppo a cuore il dolore del popolo calabrese per usarlo come pretesto per fare un film. Il lungometraggio che abbiamo cercato di fare non focalizza la sua attenzione sulla parabola di un eroe positivo che si offre all’inevitabile martirio. Anche noi abbiamo cercato di entrare “nella piaga”. Non abbiamo tracciato una linea astratta e inutile che divide i buoni dai cattivi per rassicurare le paure della gente e fotografare imbalsamandola la guerra civile in corso. E’ un approccio che ha come esito emotivo quello che tu hai definito “senso di impotenza”. Abbiamo invece voluto guardare gli uomini e le donne che sono coinvolti nella battaglia al di qua e al di là della barricata dedicando il massimo dell’attenzione non all’eroe positivo ma piuttosto agli altri, ai cattivi.

Come si è coniugata questa necessità di sintesi con una prassi operativa così frammentata come quella della scrittura e della ripresa cinematografica?

Il film l’ho scritto insieme a Monica Zapelli. Lei è di Milano ed ha una visione culturale molto diversa dalla mia. Abbiamo condiviso sin da subito la necessità i raccontare il tutto attraverso i punti di vista di personaggi femminili, reputando il tutto più interessante ed inedito.
Avevo studiato a lungo questo fenomeno, quasi sei anni, e mi son posto principalmente la domanda del perché le donne calabresi lasciassero andare i propri figli verso la malavita pur essendo così intimamente legate a loro. Mi tormentavo da anni con questa domanda ed ho trovato una possibile e personale chiave di lettura: “forse loro questa domanda non se la pongono”. Molte donne è come se trattenessero nell’inconscio tutte le paure e tutti i dubbi che questa scelta di vita porta con sé; uno degli obbiettivi del film è cercare di far porre allo spettatore proprio la mia domanda, ma coscientemente.
Questo presupposto ci ha animati concretamente durante tutta la scrittura del film.
Monica è stata determinate. Tornava su un argomento che aveva già raccontato in un film che è diventato simbolico nel nostro Paese. Quando le ho proposto l’approccio al tema attraverso la prospettiva delle figure femminili ha saputo innescare una ricerca che ha portato la storia in un territorio che avevo desiderato e sperato ma che senza il suo contributo non credo che avrei raggiunto. Monica, per così dire, mi ha portato alla meta.

Anche se c’è un giudice, dei poliziotti che lo proteggono e dei fuorilegge che lo odiano, il film non è un poliziesco e neanche un western, è soprattutto è un viaggio nelle dinamiche familiari della ’ndrangheta. Qual è la sua opinione su questa considerazione?

Nei polizieschi normalmente c’è un caso da risolvere. Nella nostra storia nessun caso viene risolto e non c’è ne uno fra i temi in ballo che possa definirsi un caso. Il film è piuttosto un’inchiesta, un viaggio dentro un orizzonte sofferente nel quale, attraverso le scelte dei protagonisti, vogliamo gettare un dardo per porre domande più profonde di quelle che ci siamo fatti fino ad ora sulla ’ndrangheta e i suoi affiliati. Il tentativo è questo.

Come si traduce tutto questo nello stile di regia adottato?

Ho cercato di nascondere il più possibile la regia e la macchina da presa e semplificare la narrazione; si sposa molto con la mia personalità. Rendere il tutto più trasparente può aiutare a scavare più in profondità, il più possibile.
Cerco di non esagerare mai nella tecnica per non porre mai l’accento sul medium che è il cinema: la mia vocazione artistica è quella di raccontare, attraverso le immagini ed i dialoghi, delle storie.

Questa visione del cinema sembra quasi una vocazione di carattere sociale...

Sì, perché non riesco proprio a vedere il mio cinema non radicato nel sociale: gli stessi film dovrebbero essere espressione concreta di un corpo sociale e civile.
Quest’aspetto del concepire il lavoro e l’arte trova magnifico riscontro in eventi inaspettati come degli sconosciuti, o amici, che si incaricano personalmente di promuovere il film in luoghi non coperti dalla distribuzione (Locri, Genova, Ascoli o Sicilia).
L’autore poi non deve godere di essere inserito in un corpo sociale, ma deve avere la prontezza di sentirlo come proprio e consapevole che la sua opera non appartiene solo a lui, ma ad una collettività. Abbandonare la paternità di un’opera non è un fatto semplice e scontato.
Sono poi consapevole che il film non finisce nella pubblicazione, ma è una relazione culturale in continuo divenire: questo può segnalare l’innescarsi di processi che completano quel disegno che ci ha mossi inizialmente a scrivere, stimolati da quell’assurda domanda.

Questo doloroso film sulla Calabria non è stato girato in Calabria, ma in Puglia. Può essere già questo un segno della condizione in cui versa questa regione?

Per me non aver potuto girare il film in Calabria per via del fatto che le Istituzioni regionali si siano rifiutate di collaborare è un argomento troppo doloroso da affrontare. Ora il governo politico della Regione Calabria è cambiato. Faccio gli auguri ai miei amici che vivono lì di avere finalmente una classe politica che sappia mettersi al servizio dei cittadini e voltare pagine inqualificabili che la politica e i soggetti amministrativi hanno scritto negli ultimi decenni in quei territori. Se i soggetti istituzionali non sono credibili, onesti, laboriosi non si può sperare ragionevolmente in un futuro migliore, capace di assicurare alle nuove generazioni prospettive di integrazione e benessere invece che emigrazione e sopraffazione.


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