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Intervista a Francesco Raganato il regista di Tsunami Tour

Pubblicato il 17 aprile 2013 da Giammario Di Risio


Intervista a Francesco Raganato il regista di Tsunami Tour

Il corpo e il racconto. Da questi due elementi, canoni parte il nostro viaggio nella poetica del regista pugliese Francesco Raganato e del suo documentario Tsunami Tour. Vi accorgerete presto che il confronto, nonostante lo spettro di Beppe Grillo e il focus sulla campagna elettorale del Movimento 5 Stelle, strizza l’occhio principalmente al linguaggio della macchina da presa. Raganato è uomo del Sud, orientato a uno gnosticismo in cui tutto deve essere fagocitato dalla curiosità, e allora eccolo il racconto dell’esperienza di un comico, fattosi “megafono”, che gira per l’Italia con il suo camper e sfrutta la carta vincente dei sensi, dal tatto al suono. Non è un Dio, tuttavia, come per la religione cristiana, accende la speranza di una parte d’Italia e, nell’occhio del regista e nella penna degli autori Chiara Burtolo e Gianluca Santoro, diventa mito di salvezza, forza corporale e visiva che sin dal prologo informa sulle vie per superare la crisi economica e sociale. Un uomo nella storia italiana che strumentalizziamo anche per comprendere la poetica di questo regista, capace di fondere nelle sue opere realismo e onirismo, superstizione e razionalità, estetica patinata e tessuto autoriale. Tsunami Tour più che essere un documentario che racconta la costruzione di una dottrina politica, è l’indagine su un corpo che ha deciso di esercitare potere.

A mio avviso il tuo documentario è caratterizzato da tre stili differenti che si inframmezzano via via durante la narrazione. Il primo riguarda le sequenze dei comizi, in cui abbiamo un’immagine patinata, da “videoclip”, con l’abuso della tecnica dello sfocamento.

Partendo dal fatto che il riferimento estetico di tutto il film è il corpo di Grillo, la sua fisicità utilizzata come vettore, mi interessava molto svuotare questa figura tonante. Si parte con le piazze semivuote, con un Grillo all’ennesima potenza visiva e dialettica, e si arriva alla piazza gremita di gente a San Giovanni a Roma, il giorno prima delle elezioni, dove vediamo il protagonista sfatto, completamente annientato. Lo stile patinato di cui parli è il materiale che avevamo in comune con le televisioni, i telegiornali: la parte pubblica per intenderci. Abbiamo utilizzato aperture di diaframma molto basse, cercando di staccare Grillo dal fondo e giocare con i fuori fuoco per distanziarci dal linguaggio televisivo. È una parte molto “clipparola” indubbiamente, ma nel momento in cui il corpo va fuori fuoco lo spettatore si aggancia al protagonista anche mediante i suoni, i rumori. Abbiamo dovuto far slittare le immagini che l’opinione pubblica già aveva fatto conoscere all’interno di questo espediente anche per mantenere attenzione.

Il secondo prende in esame i paesaggi, con i dolly, i totali e i campi lunghi, in cui emerge uno stile più asciutto, autoriale atto a svelare il tuo occhio intimo.

Il dolly che sale mi serve a riflettere un po’, a digerire le altre parti in cui è Grillo il vettore dello spazio. Il film si apre con un dolly laterale e uno a salire, e sono d’accordo che qui parliamo di un versante più autoriale, infatti devo ringraziare il produttore Andrea Patierno che mi ha dato la possibilità anche di significare con le pause, i movimenti di macchina lenti, le istantanee.

Nel terzo, di fatto, parliamo delle riprese nel camper e nei vari alberghi, ristoranti che presentano uno stile opaco, con le immagini sgranate. Per quale motivo?

Per questo terzo stile mi piacerebbe, come per gli altri due, trovare una chiave di lettura estetica, formale ma, ahimè, devo confessarti che c’è stato un furto! Qualcuno ci ha rubato la macchina ad alta definizione e, per quelle scene, abbiamo dovuto inesorabilmente ripiegare su altro, con un inevitabile abbassamento della qualità dell’immagine.

Rimaniamo su questa struttura a tre e prendiamo in esame la messinscena. Nel primo stile Grillo con la sua stazza, corpo sembra fagocitarci ed è sempre inquadrato dal basso.

Abbiamo la prospettiva del santo, così evidente nelle processioni sacre del sud Italia. Il “nostro” Grillo che parla mi riporta al concetto di esaltazione del capo e mi vengono in mente i documentari di Leni Riefenstahl.

E infatti proprio lì volevo andare a parare. Nel Novecento, con il genere documentario, abbiamo la propaganda, se pensiamo alla Riefenstahl, all’Istituto Luce, o il taglio ideologico, con Godard e via discorrendo. Le prospettive di questo genere nel ventunesimo secolo?

È una bella domanda. I documentari di propaganda e ideologici sono rimasti e, a mio avviso, rimarranno. Rigorosamente la prima domanda che subisco riguardo a Tsunami Tour è: “Ma è pro o contro?”, come se un documentario dovesse per forza di cose schierarsi. Ovviamente in questo caso si entra nella politica ed è legittimo che lo spettatore si faccia delle domande sul mio punto di vista ma, in realtà, per me e gli autori, in questo caso ci interfacciamo semplicemente con un documento. Partendo dal presupposto che il Movimento 5 Stelle non è stato ancora storicizzato, nel nostro lavoro la storia politica dei “grillini” inizia nel momento in cui il documentario finisce, e cioè quando le televisioni dichiarano che essi siederanno in Parlamento. Possiamo essere tacciati di apologia ma non è così. Avremmo potuto montare in un diverso modo e associare, come avviene sempre in tv, ai comizi di Grillo l’apologia del giornalista di turno. Non l’abbiamo fatto. Non abbiamo inserito contesti e voci esterne critiche a Grillo, perché la contraddizione di questo movimento è al suo stesso interno. Chi è grillino e guarda questo documentario rimane tale, chi è contro lo stesso.

Però tu dici che, almeno, tutte e due i “blocchi” si fanno delle domande.

Esatto. Quello volevamo scatenare. Spero che anche i “grillini” stiano sviluppando delle riflessioni approfondite dopo averlo visto.

Parliamo dunque di un documento in itinere? Una nuova prospettiva di documentario?

Sicuramente è un documentario “meteoropatico”, che soffre il vissuto di quello che sta portando il Movimento 5 Stelle sulla scena politica italiana. Tutti i miei lavori hanno una vita posteriore alla loro realizzazione, c’è sempre un universo che continua dopo la fine delle riprese. Se si tratti di una nuova poetica generale questo ancora non mi è dato saperlo.

Tornando alla messinscena. Nel secondo blocco scompare il protagonista e, mentre ammiriamo i paesaggi, ascoltiamo la radio o vediamo giornali stesi sul balcone a mò di panni sporchi. Elementi che metaforizzano il contrasto Grillo/media?

Molti giornalisti hanno storto il naso per la scelta di presentare i giornali come dei panni sporchi in balìa del vento. È stata una provocazione e abbiamo avuto, prima di girare, difficoltà nel decidere come rappresentare i cosiddetti avversari. Abbiamo deciso di giocare con la provocazione ma anche con i filtri; per questo motivo i giornalisti (Ferruccio De Bortoli, Carlo Freccero, John Hooper, Udo Gumpel) che criticizzano Grillo e il movimento li vediamo all’interno della scatola televisiva da cui di solito parlano. Abbiamo creato distanza e voluto svelare il meccanismo senza mostrarli a schermo intero.

Nel terzo Grillo è o isolato nel camper, o in interazione con il suo cerchio magico di assistenti che lo accompagna per l’Italia.

Nel camper c’è stata la “perdita della verginità”. Abbiamo violato uno spazio segreto, precluso a tutti.

Gli assistenti di Grillo li hai definiti maschere della commedia dell’arte. Si respirano istinti “monicelliani” giusto?

Anche qui abbiamo l’imbonitore, lo scudiero e una colorita “Armata Brancaleone”. Basta guardarli in faccia. C’è l’autista, il cognato di Grillo, che non parla mai, il ragazzo sardo, che sta tutto il giorno in contatto con Casaleggio e l’altro che sembra Martin Feldman in Frankenstein Junior. Me li immagino con un banchetto e uno striscione con su scritto: “qui si vende l’elisir di lunga vita”.

Ma i personaggi di Monicelli spesso sono dei bastardi. Anche questi?

Questi qui si avvicinano molto a quell’immaginario.

Schermi, macchine da presa, telefonini. Un’enorme orgia tecnologica?

L’orgia di cui parli è la metafora dell’effetto della seduzione che Grillo sviluppa con i media. È lui il vero oggetto del desiderio, è quanto di più sexy si possa trovare in giro attualmente. Lui si muove per sottrazione perché ha compreso il gioco, “morettianamente” parlando.

Ti sento molto ironico.

Quando siamo andati a San Giovanni ci siamo meravigliati per la fiumana di gente e, tornando in studio, siamo passati all’Ambra Jovinelli dove il PD faceva la “pace” con Moretti. C’era una tristezza infinita. Il giorno dopo, “Repubblica” e il “Corriere della sera” davano risalto nei titoli principali al ricongiungimento e in terza colonna piazzavano San Giovanni. Ci siamo detti: “qualche giornale sta perdendo il contatto con la realtà”.

Hai parlato di stile televisivo. John Ellis sulla televisione ci parla di età della scarsità, della disponibilità e dell’abbondanza. Come sarà la televisione del futuro?

La televisione non porta più consenso, basta vedere il fallimento dei sondaggi durante l’ultima campagna elettorale. Nel futuro la scatola televisiva la vedo molto frammentata; ci sarà sicuramente un canale generalista per i grandi eventi, di stampo teatrale …

... Si ritorna a Walter Chiari, alla camera fissa?

… sicuramente. E poi ci saranno tanti canali e un’estesa proliferazione di offerta che già oggi possiamo riscontrare, visto che ogni network ha il suo canale satellitare. Dobbiamo soltanto abituarci a tante scatole vuote da riempire con focus incentrati sulla tematicità.

Ti piace molto il montaggio formale, ritmico. In L’isola analogica questo è evidente mentre in Tsunami Tour sei dovuto scendere a compromessi?

L’isola analogica è un esercizio di stile e avevo completa libertà. In Tsunami tour ho dovuto mediare, e abbiamo scelto però un montatore cinematografico, e non televisivo, riuscendo ad avere sul campo una percezione del ritmo diversa. Per questo motivo i dolly sono lenti, cinematografici, narrativi appunto e non “frettolosi” come viceversa avrebbe fatto un montatore televisivo.

Ti sento sincero. Però lasciami dire che in ogni caso, mettendo sempre l’individuo in interazione con lo spazio, comunque sviluppi una tecnica di consenso.

Io voglio fare mio lo spettatore. Quest’ultimo deve stare incollato alle immagini e non se ne deve andare. Certe volte mi lascio prendere la mano e, in effetti, sono facilmente attaccabile e qualcuno può tacciarmi di apologia, agiografia. Però se ho un personaggio forte in schermo sono obbligato a portarlo avanti fino in fondo, costi quel che costi. Se faccio un film su Hitler io mi “innamoro” di Hitler, poi starà allo spettatore far emergere contraddizioni e sviluppare un percorso critico. Molti mi hanno accusato, a una prima scrematura, che il documentario sia troppo pro-Grillo. Ma siamo solo all’inizio.

Concludiamo con il tuo linguaggio universale. Nei tuoi lavori i protagonisti, che non sono quasi mai attori professionisti, raccontano storie, si ritrovano in cerchio e non guardano mai in macchina. Come lavori con i tuoi “aedi”?

Nei miei lavori creo sempre, prima di girare, una situazione. Mi ricordo che nel documentario L’Isola delle colf, in cui tratto l’emigrazione delle donne filippine verso l’Italia, mi trovavo in questa casa dove ero l’unico occidentale durante una riunione di famiglia. C’era tensione visto che una ragazza voleva partire e tutta la famiglia era contraria. A un certo punto, mentre stavo riprendendo, piomba il marito di lei e inizia a fare una scenata di gelosia senza preoccuparsi della mia presenza e della macchina. Mi piacciono queste situazioni in cui divento un invisibile e mai un intruso.

La redazione di Close – up ringrazia il regista e la casa di produzione Todos Contentos y yo tambien per la grande disponibilità. Un ringraziamento in particolare a Maria Ciampaglione, dell’ufficio stampa “Quattrozeroquattro”, per l’aiuto preciso e rigoroso nell’organizzazione dell’intervista.


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a cura di Giammario Di Risio
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