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Intervista a François Ozon

Pubblicato il 8 ottobre 2009 da Fabiana Proietti


Intervista a François Ozon

In esclusiva per Close-Up, abbiamo incontrato François Ozon nel giardino di Palazzo Farnese, dove, in occasione dell’uscita italiana di Ricky - sua penultima fatica, distribuita da Teodora Film, così come il prossimo Le Refuge, in uscita a marzo 2010 - l’autore francese ci ha parlato del suo cinema, dei temi ricorrenti come delle influenze stilistiche e concettuali del cinema americano classico e di quelle europee degli anni Sessanta e Settanta, tra cui spiccano autori assai diversi come Eric Rohmer e Reiner Fassbinder, personalità antitetiche delle quali il cinema di Ozon opera una sintesi complessa e stimolante.

Il suo cinema sembra molto distante dalla tradizione cinematografica della Nouvelle Vague, ma poi è capace di rivelare improvvisamente degli elementi che denunciano il debito nei confronti, ad esempio, di un Eric Rohmer . Penso a Racconto d’estate (Un ragazzo tre ragazze), ai suoi passaggi muti, in cui il protagonista è seguito dalla macchina da presa senza stacchi e in completo silenzio. Regarde la mer pare aver recuperato questa lezione e ne Il tempo che resta si ritrovano degli attori feticcio del cinema di Rohmer come Marie Rivière et Melvil Poupaud…

Sicuramente il mio rapporto con i registi della Nouvelle Vague riguarda in primo luogo l’importanza da loro attribuita alla produzione. Hanno avuto la capacità di capire che se si voleva fare un film di un certo tipo bisognava avere il budget necessario per realizzarlo: così, per esempio, François Truffaut faceva un film a grosso budget seguito da uno a budget molto ridotto, o lo stesso Rohmer ha fondato la sua casa di produzione per poter essere libero di produrre i film che voleva; o Chabrol, che lavorava sempre con gli stessi produttori per avere una certa continuità.
Inoltre, mi piacevano perché erano cineasti e scrittori al contempo, hanno destabilizzato l’ordine precostituito - e un po’ bloccato - della cinematografia francese conservatrice dell’epoca.
Eric Rohmer, poi, è stato anche uno dei miei insegnanti quando studiavo cinema all’università, è uno dei miei registi preferiti, e credo di aver visto tutti i suoi film. È stato proprio allora, quando ho visto Il raggio verde, che mi sono reso conto - proprio mentre giravo dei piccoli film in Super8 - come fosse possibile realizzare anche con pochi mezzi e con pochi attori una grandissima storia. Ho lavorato con molti degli attori di Rohmer e anche il mio prossimo film sarà interpretato da Fabrice Luchini, che è un altro degli interpreti rohmeriani per eccellenza.

L’idea di cinema che si ritrova in Angel può essere considerata quella del postmoderno ? La messa in scena che rende omaggio agli stilemi della Hollywood classica è impregnata dell’ironia del gioco intertestuale? Qual è il suo rapporto con il cinema classico e che ruolo ha giocato il cinema di Fassbinder nell’approccio ad autori come Douglas Sirk?

Ho sempre amato il cinema classico, soprattutto i film degli anni Quaranta e Cinquanta, probabilmente perché sotto una forma classica era un cinema che raccontava cose molto sovversive. E’ un po’ la lezione di Buñuel che diceva “Io racconto in maniera molto semplice, realista ed epurata delle cose mostruose”. In effetti è quello che ho fatto anch’io con Ricky, un racconto molto semplice, dove non c’è bisogno di inserire chissà quali effetti speciali solo perché si sta raccontando una storia così straordinaria come può essere quella di un bebè volante.
Per quanto riguarda Fassbinder, quando ho scoperto la sua filmografia ero uno studente, e all’epoca ero diviso perché da un lato amavo molto il cinema classico - come quello di Sirk - e dall’altro film molto realistici, come quelli di Pialat. Molti miei colleghi studenti mi dicevano che non potevo amare due forme di cinema così differenti, mentre con Fassbinder ho visto come lui riuscisse a fondere questi elementi opposti: a fare dei film come Lola, in cui parlava di una storia fantastica descrivendo però la Germania dell’epoca, o Effi Briest. Fassbinder è riuscito a mescolare queste tendenze senza perdersi, ma realizzando anzi dei film molto ricchi e interessanti.

C’è una frase di François Truffaut, che lei ha citato in passato, e che recita “Bisogna girare sempre contro il film precedente”. In effetti l’emotività trattenuta di Ricky è molto distante dall’afflato di Angel, ma ci sono tra i suoi film dei percorsi, dei fil rouge, che spesso si trovano a legare due istanze opposte come la nascita e la morte. Morire nei suoi film equivale sempre a scomparire, in fuori campo, ma è una scomparsa che si combina con una nuova vita che viene al mondo. Se il mélo classico è un genere fondato sull’Amore e sulla Morte, il suo cinema pare introdurvi un nuovo elemento: la vita...

Credo che spesso i miei film parlino del sentimento del lutto, e piuttosto che la morte raccontano l’accettazione di questa e il conviverci.
Il generare una nuova vita è un elemento che permette di andare avanti. Ne Il tempo che resta è questo quello che succede: il personaggio di Melvil Poupaud sa di dover morire, ed è giovane, e per accettare la morte sceglie di dare la vita, dunque le due cose sono legate.
In Ricky, questa donna imparerà ad accettare che il suo bambino è volato via per avere poi un altro figlio. Ho l’impressione che i due aspetti siano molto implicati e che non ci sia l’uno senza l’altro. Credo sia per questo che tale dualità ricorre così spesso nei miei film, e anche il personaggio di Charlotte Rampling in Sotto la sabbia, che non vuole accettare la morte, per continuare a vivere crea un fantasma, preferendo vivere accanto a questo, dando vita a un mondo virtuale, immaginario, piuttosto che rassegnarsi alla realtà.

Anche Sarah Morton in Swimming Pool o la stessa Angel sono delle scrittrici che danno vita a…

…sì, a delle opere, non a dei bambini ma a dei libri. Infatti è interessante che Angel, la quale non è riuscita ad avere figli, pensa sia questo il dramma della sua vita. Ha scritto dei libri, ma questi libri poi scompaiono dalla memoria, ha vissuto accanto ad Hesmé senza avere bambini, e quando sta per morire dice “Se avessi avuto dei figli la mia vita sarebbe stata diversa”.

Lei ha parlato spesso dell’immaginazione in contrapposizione alla realtà. Penso a Il tempo che resta, alle scene del protagonista davanti allo specchio in cui rivede se stesso bambino, e anche altrove, come in Sotto la sabbia e Swimming Pool, ha percorso questi sentieri. Mi domando, cos’è per lei il fantastico e qual è la maniera più giusta per rappresentarlo al cinema? Bisogna andare incontro alla qualità onirica dell’immagine od opporvisi?

Credo che, come diceva Buñuel, bisogna filmare “il sogno come la realtà e la realtà come il sogno”, dunque cerco, quando mostro dei fantasmi o dei sogni, di filmarli nel modo più realistico possibile e il più semplicemente possibile perché si mescoli al tono del racconto. Credo che i sogni dei personaggi dicano tanto quanto le loro azioni, e sono particolarmente rivelatori della loro essenza. Mi interessa quindi mostrare il fantastico come la realtà. A volte mi capita di fare il contrario, mostrare, cioè, la realtà come fosse onirica o immaginaria: per esempio in Angel, nel momento in cui si vedono le sue vacanze con Hesmé, si ha l’impressione di essere in uno dei suoi romanzi. I momenti di felicità di questa eroina sono sempre visualizzati come qualcosa di virtuale, di estremamente falso e artificiale. Anche se sono momenti vissuti realmente, vengono rivisti attraverso l’immaginazione romanzesca della protagonista.

Infine, l’identità: la madre mostrata in Ricky sembra accogliere in sé gli aspetti opposti e controversi delle due madri di Regarde la mer; dalle sfaccettate dive di Otto donne e un mistero alla dualità fra la rigida Sarah e l’esuberante Julie in Swimming Pool, il suo cinema è costellato di ritratti antitetici che rendono conto di una percezione dell’identità femminile come elemento in divenire. Come mai questo interesse?

Io credo che i personaggi femminili siano molto complessi e complicati, quindi a volte per dipingere tutti gli aspetti della femminilità ho bisogno di ricorrere a più personaggi, mentre altre volte sono riuscito a inglobarli in un’unica figura. Sono particolarmente attratto dalla creazione di ritratti femminili, perché le donne hanno una vita interiore più stimolante, più forte e ricca che trovo più interessante rispetto a quello offerto dall’universo maschile.
Per quanto riguarda l’opposizione dei caratteri, è perché ai fini narrativi è più efficace avere dei contrasti, delle opposizioni anziché delle unioni. Oppure una relazione inizialmente oppositiva che termina in un incontro, come in Swimming Pool, dove ci sono un inizio e una fine totalmente agli antipodi ma che poi si rincontrano.

La nostra conversazione con François Ozon finisce qui, dopo aver tracciato insieme - si spera - delle linee guida per guardare al suo cinema, sempre molto stratificato, leggibile a più livelli, senza per questo perdere il carattere affabulatorio dei grandi narratori.
Ci siamo trovati di fronte a un autore in stato di grazia, nel pieno di una metamorfosi stilistica, in cui i toni grotteschi e provocatori degli esordi si vanno man mano stemperando in un più maturo equilibrio, capace di dar vita a una delle sue pellicole più vibranti - questo nuovo Ricky - che colpisce al cuore per la sua emotività mai scontata.


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