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Intervista a Gianclaudio Cappai

Pubblicato il 10 novembre 2009 da Fabiana Proietti


Intervista a Gianclaudio Cappai

Abbiamo incontrato Gianclaudio Cappai poco prima della presentazione del suo mediometraggio, So che c’è un uomo, in concorso alla 27a edizione del Sulmonacinema diretto da Roberto Silvestri, dove - dopo una folgorante vetrina veneziana nella nuova sezione Corto Cortissimo - ha vinto il premio per la Miglior Regia.
Gianclaudio, classe 1976, ci ha raccontato come il progetto di So che c’è un uomo sia stato per lui una sorta di prova del nove, di fronte alle difficoltà incontrate da chi, oggi, sogna il cinema con la C maiuscola, quell’autorialità che sembra diventata una parola esecrabile, dinanzi alle logiche del botteghino.
La sincera conversazione con questo giovane cineasta diplomato in Regia e Sceneggiatura all’Accademia dell’Immagine di L’Aquila, oltre a raccontare l’interessante idea di cinema sottesa a So che c’è un uomo, ci ha dato anche modo di parlare di questa realtà un po’ avvilente e di una generazione di nuovo con "i pugni in tasca", lasciandoci con una domanda che abbiamo trovato quanto mai pertinente: Possibile che anche al cinema dobbiamo morire ’democristiani’ e compiacenti?

Il tuo è un film che colpisce prima di tutto a livello sensoriale: i colori intensi di un paesaggio assolato e inaridito, i suoni della natura - i grilli, l’abbaiare dei cani - che invadono la scena già sui titoli di testa. Come hai lavorato per ottenere questo impatto prima di tutto fisico, di pancia, prima che intellettuale?

A me interessa raccontare in maniera evidente la percezione;o meglio, voglio condividere con lo spettatore determinate situazioni di percezione del mondo. E quando si scrive un film come questo, basato fortemente su un’empatia sensoriale e fisica con chi guarda, è la messa in scena sullo spazio e sul suono che fa la differenza. Il suono e lo spazio emanano il percepito. E’ tutto una grande costruzione meticolosa, dove è specialmente il lavoro che fai sul fuori campo, sugli “altrove” (i latrati costanti), a far affiorare quel clima perturbante e strano per cui ti chiedi: sento che sta per succedere qualcosa di terribile, ma non riesco a capire cosa…

La morbosità dei legami familiari, l’isolamento dal resto del mondo in un contesto che sembra atemporale, e la follia del figlio maschio, agnello sacrificale per un ritorno all’ordine, legano So che c’è un uomo al folgorante esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca: avevi in testa quella pellicola come riferimento al momento di concepire il tuo lavoro o è un’affinità poetica emersa a posteriori?

Il film di Bellocchio mi ha sempre permeato - forse inconsciamente - per quel suo mood cupo e fatale con cui mostrava una provincia senza speranza. In questo senso l’affinità è tangibile, oltreché onorevole. Tuttavia, gran parte della riuscita di So che c’è un uomo credo nasca dall’urgenza concreta di catarsi, se non di esorcismo, che avevo nei confronti della materia che stavo trattando. Quasi un’ossessione familiare che, durante le varie fasi di lavorazione, mi attraeva e respingeva contemporaneamente. Per me i grandi temi dell’umanità sono nelle scene di famiglia. Basta saperli osservare con lucidità: l’incongruenza e l’ambiguità di certi rapporti, la paura e l’attrazione verso la morte, un erotismo latente. Radicare questi aspetti all’interno della famiglia, moralmente fa paura. Io, senza calcare la mano ma con tanta rabbia, ho cercato di descriverli. E ti assicuro che avevo "i pugni in tasca".

Si ha l’impressione che tu abbia chiesto agli attori una recitazione molto fisica, aggressiva, che tu fai emergere stando molto attaccato ai loro corpi, ai loro volti, quasi vampirizzando le loro espressioni e i loro sentimenti. Com’è stata per te la direzione degli attori? Ci sono registi che li lasciano molto liberi, altri che li seguono passo passo. Qual è il tuo approccio?

Mi piace questa idea di “vampirizzare” le loro espressioni,ed è innegabile che al montaggio molte scelte delle inquadrature e dei dettagli abbiano optato per l’input da te sopracitato. In generale preferisco lavorare con attori che conosco, che sono bravissimi, e soprattutto con cui si possa conversare. E’ molto semplice, consiste nel discutere e nel creare un clima di fiducia. Altrettanto con i collaboratori tecnici. Certo, ci sono registi che lavorano con l’improvvisazione, altri con prove estenuanti. Qui non vi è nessuno dei due approcci. Ho chiesto agli attori un’emotività trattenuta e per nulla iperrealistica, stando invece molto attento alla loro disposizione negli spazi, nei rapporti e nei movimenti dei corpi tra di loro.
Per me i corpi sono una mappa chiara di ciò che succede a una persona, sono un luogo di verità. Il resto del lavoro dipende da quanto la macchina da presa riesce a captare senza pietà; mi sentivo come un entomologo che scruta e insegue i suoi insetti muoversi dentro una scatola.

Il tuo film colpisce particolarmente perché possiede una qualità ancestrale che lo svincola dalle angustie del cinema minimalista contemporaneo. Da giovane autore emergente, che impressione hai del cosiddetto "giovane cinema italiano"? Da ex studente dell’Accademia dell’Immagine di L’Aquila, che ruolo ritieni abbiano le scuole di cinema nella formazione di nuovi autori?

“Il nuovo e giovane cinema italiano”…la verità è che vorrei crederci. Vorrei. Forse è apparsa una nuova generazione, penso agli ottimi Garrone, Costanzo, Munzi, ma per il resto è deprimente crescere sognando Francis Bacon, Kim Arcalli e Jacques Tati, svegliarsi una mattina e vedere che i tuoi coetanei presi in considerazione sono Fausto Brizzi e Paravidino. Ti passa la voglia. Non sta a me dirlo, ma a volte penso che la riflessione sulla realtà sia ferma a livelli superficiali, mentre invece quando giri un film devi avere una coscienza molto forte di ciò che stai facendo, altrimenti le cose ti sfuggono di mano e tutto si riduce al solito bozzettismo da trasloco condominiale. E’ mai possibile che anche al cinema dobbiamo morire democristiani e compiacenti? Io preferisco che lo spettatore esca dal mio film arrabbiato, polemico, infastidito piuttosto che sollevato. Se esce dicendo: “Ah, però, che carino”, allora la mia è stata tutta fatica sprecata.

Hai girato in pellicola, una scelta curiosa in tempi in cui non si parla d’altro che di rivoluzione digitale. Eppure il formato, la grana dell’immagine, contribuisce al fascino dell’opera. Come mai hai preso questa - coraggiosa, soprattutto per i costi - decisione?

Senza entrare nella solita (e noiosa) diatriba pellicola versus digitale, mi limito a dire che nel mio caso è stata una scelta di gusto, condivisa in primis dal direttore della fotografia. Volevamo una pasta fotografica densa, sporca e “malata” dal punto di vista colorimetrico, abbiamo usato tantissime volte i teleobiettivi, i fuori fuoco. Certi risultati col digitale te li sogni un giorno si e l’altro pure e non c’è rivoluzione che tenga. Ripeto, non ho nulla contro le nuove tecnologie digitali, anzi; dipende da come si usano e per cosa si usano. La domanda va sempre rivolta a colui che usa lo strumento; il problema sta più che altro nel senso di responsabilità di chi usa lo strumento digitale.

Nel cast di So che c’è un uomo compare anche Daniela Virgilio, diventata di recente famosa come la Patrizia di Romanzo Criminale-la serie. Non so se ti interessi di queste produzioni televisive, ma nel caso cosa ne pensi? Sono prodotti di qualità che fanno bene al cinema, o lo affossano definitivamente proprio perché spostano i capitali su un altro mezzo?

Non seguo assiduamente queste serie, ma mi incuriosisce molto il carattere innovativo e di ricerca narrativa che una certa serialità audiovisiva – più straniera che italiana - sta portando avanti negli ultimi anni. Mi affascina. Ecco,da questo punto di vista il cinema ha un pò il fiato corto, ma senza rischiare la morte; non so, forse perché ancora attanagliato a certi vincoli di compiutezza e chiarezza tipici della durata filmica. Secondo me l’approccio “sperimentale” di queste serie tv non può che avere verso il nostro asfittico cinema una spinta corroborante e salutare. O almeno cosi spero. E il bel Romanzo criminale diretto da Sollima rientra nella categoria.


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