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Intervista a Giovanni Columbu

Pubblicato il 5 aprile 2013 da Edoardo Zaccagnini


Intervista a Giovanni Columbu

Meritava un approfondimento, questo Su Re così forte e originale. E quale modo migliore, allora, per entrare bene dentro al film, se non incontrare il regista e chiacchierare senza fretta con lui? Giovanni Columbu l’avevamo intervistato un bel po’ di tempo fa (clicca qui per leggere) e ci ha fatto piacere ritrovarlo oggi, all’uscita in sala del suo secondo film, più di dieci anni dopo il bellissimo Arcipelaghi, del 2001. Sempre interessante e appassionatissimo del suo mestiere, il regista sardo ci ha dato la possibilità di analizzare insieme a lui Su Re. Siamo partiti dalla genesi di questo lungo e faticoso progetto.

Il film nasce da un mio secondo incontro col vangelo. Dopo le letture superficiali della gioventù, ho riscoperto delle pagine meravigliose. Mi ha affascinato immensamente lo statuto di verità presente nei quattro testi, ma anche il fatto che gli stessi si sfaccettino in quattro verità leggermente diverse tra loro, che rimandano a quattro punti di vista soggettivi. Ho intrapreso una lettura trasversale dei vangeli, passando da uno all’altro, pensando a qualcosa che richiamava il Kurosawa di Rashomon e più in generale certi procedimenti propri della cultura moderna, ovvero il tema della ripetizione e della serialità che in genere si articola e si declina in modo leggermente diverso, con delle sfumature.

Perché c’è voluto così tanto tempo?

E’ stata una lunga avventura che ho messo davanti a tanti altri progetti. Ho detto adesso o mai più! Quando ho realizzato Arcipelaghi avevo 50 anni, e sapevo che le mie forze non sarebbero rimaste uguali per sempre. Intuivo che questo progetto sarebbe stato molto impegnativo, che dovevo farlo subito. E per fortuna l’ho fatto. E’ occorsa una grandissima energia per portare a termine un’operazione di questo genere, a partire dal reperimento dei soldi.

Non tutti e non subito ti hanno dato fiducia?

Li capisco. Come potevano venirmi incontro su un progetto così difficile da immaginare? Mi guardavano con simpatia, anche con interesse ma pensando che in fondo fosse una pazzia. Io ero mosso soprattutto da sentimenti e da visioni.

Qual è stata l’idea di partenza?

La mia idea è stata da subito quella di trasporre la Storia in un altro luogo. Non volevo raccontare i fatti storici, che per altro conosciamo poco. Mi interessava piuttosto concentrarmi su ciò che tutti noi conosciamo meglio, su quello che possiamo testimoniare con sicurezza. Volevo raccontare ciò che nel tempo la Storia di Cristo ha suscitato e prodotto nel nostro immaginario. Mi stava a cuore più una dimensione legata all’immaginario, e in una certa misura al sogno.

Al sogno in che senso?

L’idea stessa di trasporre i fatti storici significa raccontare un sogno. Un sogno che è anche il desiderio di ritrovare Gesù e la sua storia ovunque. Questo significa che tutti noi siamo partecipi di quanto vi è di edificante nel vangelo, ma siamo anche in qualche modo responsabili di quanto di violento è scritto in quelle pagine, a cominciare dal falso processo e dall’ingiusta condanna di Gesù, fino alla sua morte. Nella trasposizione dei vangeli in un altro luogo, ecco che la vicenda diventa universale, ecco che tutti diventiamo protagonisti di questa grande Storia.

Sei partito da un’emozione?

Dall’emozione che la lettura del vangelo mi ha dato. Vi ho ritrovato l’esperienza della vita: la crudeltà che c’è nella società, il dolore di vivere, ma anche anche le ragioni positive per cui è facile e bello gioire della propria esistenza. Nei vangeli ci sono i motivi per rafforzare la speranza ed un possibile riscatto umano. Per tutti questi motivi il vangelo commuove.

Qualcuno ti ha chiesto: "Perchè un film su Cristo nel 2013?"

Me lo hanno chiesto a Rotterdam: "Perché mai, proporre oggi un film su Gesù? Mi sono sentito spiazzato, messo in discussione, all’angolo. In effetti non mi sono mai posto questa domanda. Ho soltanto sentito che questa Storia era bella e che meritava di essere raccontata. Sentivo che c’erano tante ragioni per farlo in questo nostro tempo. Io sono di questo tempo e questa storia mi pareva appassionante e modernissima, o per lo meno ritengo che potesse essere raccontata oggi in modo molto moderno.

Ci sono alcune cose in comune tra i due film, tra Arcipelaghi e Su Re: entrambi raccontano un processo, entrambi sono ambientati in una Sardegna arcaica, entrambi sono recitati in dialetto sardo ed entrambi procedono con una narrazione non lineare. Che significato dobbiamo dare a queste tue scelte che tornano?

Un tema che trovo molto interessante è quello che riguarda un principio di incertezza della realtà. Ovvero tutto quel che rimanda alla percezione soggettiva della realtà. Al centro dei miei film c’è sempre il tema della nostra percezione.

Ti interessa l’insieme di punti di vista che aumentano la conoscenza delle cose?

Mi interessa questo tipo di conoscenza fatto di punti di vista diversi. Che forse è la verità, ma non è detto. Non è detto, cioè, che quattro punti di vista o cento punti di vista diano la verità. La verità, in definitiva, è quel che è per ognuno di noi. E’ la nostra percezione. Questo tema della soggettività, o di una verità interiore, era già fortemente presente in Arcipelaghi. Li c’era proprio una declinazione delle diverse testimonianze legate a un processo.

Qui invece?

Qui, invece, è il tema stesso della Storia di Gesù ad essere soggettivo. La nostra percezione interiore del mistero e di Dio. Faccio un esempio. Quando alla morte di Gesù si verifica un terremoto, quel terremoto (che è raccontato anche nel vangelo di Matteo) nel mio film diventa soggettivo, è incerto. Non si sa con certezza se sia avvenuto oggettivamente oppure no. E’ certo che qualcosa di terribile e di grandioso è accaduto. E’ certo che sono state scosse in modo duraturo, forse per sempre, le coscienze degli uomini. Il rombo che sentiamo è forse un rombo interiore, che sta dentro le persone.

A proposito di punti di vista, puoi raccontare della seconda troupe autonoma nel film?

Così come agli interpreti non davo la parte, ma gliela suggerivo man mano che giravamo, lo stesso facevo con gli operatori: non dicevo tutto nemmeno a chi faceva le riprese. Il concetto era che gli attori si muovevano in libertà e la macchina li seguiva. Questo per cercare di sfuggire alla deliberazione e a tutto quello che in qualche modo poteva essere pre impostato, quindi non naturale e spontaneo.

E quindi, la seconda troupe autonoma?

Io ho tenuto quasi sempre la macchina 1, e la seconda troupe, da un certo momento in avanti, è stata affidata a un grandisismo artista, Uliano Lucas, che però non aveva mai fatto riprese cinematografiche. Lui era sul set come fotografo di scena, tra l’altro le sue foto sono meravigliose. A un certo punto, a seguito di una defezione, ho pensato di affidare a lui la macchina 2. Gli ho detto: "Fai quello che vuoi e non dirmi nulla". Io giravo per conto mio senza badare a lui, senza dargli un posto preciso e senza fornirgli indicazioni. Senza preoccuparmi che lui trovasse un punto di vista possibile.

Lui ha trovato un nuovo punto di vista?

Io ero alla macchina 1, quindi la scena naturalmente era rivolta sempre verso di me. Lui ha introdotto un punto di vista eccentrico, molto più vero, in qualche modo, rispetto a quello mio. Ha costruito una sorta di di contrappunto alla regia, interagendo col mio lavoro, sottoponendo il mio lavoro al suo.

La scomposizione del racconto lineare. Perchè questo tuo rifiuto del racconto progressivo, sia qui che in Arcipelaghi?

Perchè mi affascina la relazione che c’è tra quel che segue e quel che precede. Una storia può essere raccontata nel suo intero sviluppo lineare, però se è vero che ogni accadimento è conseguenza di fatti che sono accaduti in precedenza, ecco che allora diventa interessante connettere il tempo presente con quello che è accaduto in precedenza e con quello che succederà dopo.

E in relazione col vangelo?

Tutto questo trova delle ragioni ancora più specifiche nel racconto del vangelo. Gesù e la Storia del vangelo sono eterni, raccontare solo i fatti storici significa limitarli; raccontare la permanenza e l’immanenza di questi fatti, invece, che sempre ci accompagna, vuol dire al contrario coglierli nella loro indefinita e illimitata dimensione. La storia di Gesù è tutto quello che questa Storia ha comportato.

La Sardegna che racconti nei tuoi film è fuori dal tempo. Cosa ti spinge a raccontare lì dentro, laggiù, le tue storie?

Il fatto di avere conosciuto la Sardegna oltre al fatto di esserci nato. L’ho sempre conosciuta e percepita come una sorta di "teatro possibile". La Sardegna è per me un luogo di scenari, di interpreti e di voci che sono di per se stesse significanti.

In che modo?

Le voci e le parole ovviamente hanno un valore contenutistico e semantico, ma hanno anche un valore e un significato legato ai loro suoni. Ecco, direi che il sardo ha una sua musica e una affascinante poetica. Ogni parola è epressa ed interviene con grande forza, irrompe in genere dopo pause di silenzio che possono essere più o meno lunghe, e generalmente cariche di tensione. Le parole stesse sono generalmente violente e non conoscono mediazioni linguistiche, come invece avviene in altri contesti. In sardo non esiste né il "grazie" né il "per favore", né il "mi scusi". Tutto si esprime con ordini perentori. Quindi la violenza in Su Re non si esprime solo nelle frustate, nella corona di spine e nei chiodi che vengono conficcati nella carne di Gesù. Ma anche nelle parole che accompagnano queste azioni e nel loro essere così asciutte, ruvide, inesorabili.

Hai usato gli strumenti di una cultura per sottolineare la parte violenta dei vangeli?

In realtà la lingua sarda attua un disvelamento della violenza. Quel modo di esprimersi non è più violento di quello moderno, convenzionale. Altrove, nella comunicazione rivestita di buone maniere, c’è addirittura più pericolo, perchè non puoi proteggerti, non hai punti di riferimento, sei raggirato. Nel sardo invece c’è grande immediatezza, c’è spontaneità, ci si libera di certi pudori. Il sardo è una lingua molto espressiva in generale.

Quindi l’hai utilizzato per il suo valore espressivo a 360 gradi...

Per esprimere tutti i sentimenti. dalla meraviglia al dolore, per esempio, e qui cito Pietrina Menneas, l’attrice che aveva già lavorato con me in Arcipelaghi e che in Su Re interpreta il ruolo di Maria. A Torino (dove il film è stato presentato) Pietrina (con la sua semplicità e con la sua ammirevole e amabile umiltà) ha detto che per lei era stato semplice interpretare il ruolo di Maria, perchè piangere sul corpo di Cristo morto, cioè sul corpo di un figlio morto, era qualcosa che aveva già vissuto altre volte, anche se non direttamente. Ma altre madri della sua cultura, del suo contesto lo avevano fatto davanti a lei. E lei ha condiviso con loro quell’esperienza di dolore e di pianto.

Parlando di interpreti, perché hai deciso di far interpretare Cristo a Fiorenzo Mattu, che non ha le carattersitiche fisiche dell’iconografia classica cristiana?

Perché a un certo punto mi sono reso conto che per Gesù non dovevo cercare una rispondenza di carattere esteriore, legata all’aspetto fisico, alla bellezza. Ma dovevo lavorare su qualcosa che riguardasse l’intensità. Se ci riflettiamo, in fondo, le prerogative di ogni grande mente e di ogni grande uomo amato e riconosciuto come leader, non hanno nulla a che fare con l’aspetto esteriore. Ma non è nemmeno soltanto un discorso di qualità interiori, intellettuali. E’ un discorso di intensità, che traspare con evidenza quando siamo di fronte a un uomo di grande valore. Ecco perchè ho scelto Fiorenzo Mattu, ed ecco perchè ho spostato di così tanto le coordinate fisiche su Cristo a cui eravamo abituati.

Mattu che all’inizio doveva fare Giuda, giusto?

Si, e Cristo avrebbe dovuto farlo un altro ragazzo, anche lui non convenzionale, ma un bel ragazzo, un po’ sulla scia della scelta fatta da Pasolini per Il vangelo secondo Matteo. Il primo Cristo che avevo scelto richiamava l’idea del Cristo forte e mite insieme, un po’ melanconico. Era Giovanni Frau, che poi è finito per fare l’apostolo Giovanni. Invece Fiorenzo Mattu, ovvero l’intensità allo stato totale, lo avevo pensato per il ruolo di Giuda. Ma a ben pensarci, questa scelta determinava uno squilibrio dentro l’architettura del film.

Giuda polarizzava troppo?

Infatti, spostato Fiorenzo Mattu da Giuda a Gesù, il film ha iniziato a funzionare ed ha acquistato una sua stabilità. Per contrappunto, poi, Giuda è diventato un ragazzo giovane dall’aspetto dolce, fragile, che improvvisamente si è avvicinato al Giuda descritto da Borges come "L’eroe che si sacrifica con l’infamia".

Il tuo sembra un Cristo molto terreno. Nel film ci sono uomini in tutti i loro aspetti, negativi e non solo. E’ questo l’approccio che hai avuto partendo dai testi sacri?

Non esattamente. Io ho voluto raccontare una storia che si potesse leggere in diversi modi, ho cercato di offrire allo spettatore il tipo di lettura che voleva fare, che preferiva. O tutta ancorata alla dimensione terrena, oppure gli ho voluto concedere la possibilità di riconoscere anche in questa dimensione così concreta, umana, materica e ruvida, una dimensione trascendente, che riguarda quel mistero che noi chiamiamo col nome di Dio. Tutta la lettura di Dio si presta, secondo me, a una duplice lettura. È una storia veramentre aperta, capace di suscitare l’interesse di credenti e non credenti. Anche quando Gesù dice di sé "Io vengo da un altro mondo", si può considerare Cristo come un essere dalla natura duplice, umana e divina, ma si può anche leggere questa affermazione da un punto di vista diciamo politico: "io non mi riconosco in questo mondo!". Ecco, messa così molti di noi possono dire di non essere di questo mondo. E questo esempio si può allargare a tanti altri concetti espressi nel vangelo.

Chi sono i personaggi del film?

I personaggi del film persone sono di un altro pianeta, è un mondo primitivo, primordiale, ma anche noi che viviamo in tutt’altro modo, continuiamo in fondo a non essere molto lontani da quegli uomini.

Il film è immerso in una natura selvaggia e in qualche modo immortale. In che rapporto sono i personaggi col paesaggio?

Il paesaggio è un luogo col quale gli esseri umani sono in relazione. Può esserci conflitto, violenza, fascino e mistero. La natura allude al mistero, all’immensità e a Dio. Questa natura che a tratti sembra un tratto della superficie lunare era per me l’immensità. Ho pensato a questo quando ho scelto il paesaggio di Su Re

Bresson, Pasolini, quanto autori come questi ti hanno influenzato come regista?

Di Bresson amo le riflessioni sull’utilizzo etico del mezzo, sulla ricerca di un’estetica che passa sempre per qualcosa di necessario, qualcosa che deve evitare tutto ciò che è ridondanza. Poi di riferimenti importanti ne ho tanti. Quelli che considero i maestri sono ancora i registi della prima metà del secolo scorso. Dreyer, Lang, Bergman, soprattutto. Per me, però, contano molto anche i riferimenti all’arte. Se noi prendiamo per esempio La passione dipinta da Hans Memling è di una modernità e di una libertà incredibile. Tutta la sua passione è in una sola scena, in unico quadro tutto ambientato in una cittadella. Ci sono 9 croci con tre momenti diversi della crocifissione. Se tu fai una cosa così al cinema crei sconcerto. Il cinema, per certi versi, pur essendo più recente rispetto ad altre forme di espressione artistica, ha finito per essere più conservatore. Il cinema è troppo legato ai fatti, quando quello che noi conosciamo meglio sono i nostri sogni.

La parte più truculenta della passione la lasci fuori dall’inquadratura. Come mai fai questa scelta?

Questa è una scelta di indirizzo, in generale mi piace raccontare attraverso i piani d’ascolto, non mi piace mostrare, preferisco allontanarmi dal fulcro della scena soprattutto nei momenti più drammatici, in modo da avere maggiore drammatizzazione. Ci sono due vie per raccontare efficacemente: una è quella di mostrare; l’altra è quella di far immaginare, e qui la rappresentazione prende forma soprattutto nella mente degli spettatori. Si può stringere su un dettaglio ed enfatizzare con la musica, oppure decidere, nel momento più intenso, di prendere le distanze, di volgere altrove lo sguardo. La seconda è la scelta che mi interessa di più. Magari proprio in quel momento si apre uno spazio di silenzio, in modo che lo spettatore sia indotto a trovare il completamento dentro di se, a completare col proprio apporto immaginativo quella scena, trovando quella musica ideale che dovrebbe accompagnare la scena. La via che scelgo è più faticosa per lo spettatore e anche meno immediata. Lo costringo a lavorare. Però sono convinto che questa via possa agire più profondamente e rendere più profonda l’esperienza dello spettatore.

Il film è stato distribuito della Sacher di Nanni Moretti. Come è nata la cosa?.

Quando fui invitato alla rassegna Bimbi belli di Nanni Moretti, nel 2002, per Arcipelaghi, ormai molti anni fa, gli parlai di questo mio progetto sui vangeli, in realtà pensando che lui, in quanto ateo, lo respingesse, non trovandolo molto interessante. Ora, voglio chiarire che non ho realizzatoSu re in quanto credente, questo è un aspetto sul quale non mi sono mai soffermato. Ho accolto l’emozione di cui parlavo all’inizio senza pregiudizi. Poi c’è stato un crescere di sentimenti e anche di fede, ma questo è un altro discorso. Comunque Nanni Moretti, per mia sorpresa, si mostrò molto interessato al mio progetto. Però ricordo che mi disse di non aver mai accolto la distribuzione di un film soltanto sulla carta. In sostanza non gli bastava un’idea, un progetto a parole. Avrebbe avuto bisogno di vedere almeno un po’ di girato. Ci siamo risentiti successivamente, nel corso del tempo, sia durante la fase dei provini che quando avevo già iniziato le riprese. Ricordo che gli avevo chiesto anche dei pareri, più che altro perchè mi aiutasse ad esplorare quello che stavo cercando, che mi aiutasse a dare forza alle mie idee. Quando Nanni ha visto le prime immagini, si è convinto subito e mi ha garantito la distribuzione. A film finito mi ha dato dei suggerimenti di montaggio. Il film lo avevo montato io, ed ho accolto questa sua richiesta con favore. Tra l’altro lui ha premesso subito una cosa, e cioè che niente dal lavoro che avremmo fatto assieme sarebbe venuto fuori da scelte di cui non fossi convinto. Con Nanni abbiamo lavorato insieme alcuni giorni, rivedendo attacchi di montaggio qua e là. Non tantissime cose, in realtà, anche se lui si è mostrato attento ad ogni piccolo dettaglio, compresi i sottotitoli. Devo dire che però in generale è stato molto corretto e rispettoso del mio lavoro. La breve collaborazione con lui, inoltre mi è stata di aiuto perchè sentivo il bisogno di un’interlocuzione per capire cosa potesse non funzionare. Del resto avevo fatto tutto da solo, e per tanto tempo. Quando è così o stacchi per un pò, ti prendi una vacanza, oppure hai bisogno di uno sguardo esterno.

Grazie Giovanni

Grazie a te.



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