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Henry-Alex Rubin: "Con ’Disconnect’ racconto le contraddizioni dei social network"

Pubblicato il 4 settembre 2012 da Antonio Valerio Spera


Henry-Alex Rubin: "Con 'Disconnect' racconto le contraddizioni dei social network"

Fuori concorso a Venezia 69, il film americano Disconnect di Henry-Alex Rubin (distribuzione italiana Filmauro) indaga profondamente nell’universo comunicativo del nuovo secolo, quello dei social network, delle chat e dei luoghi d’incontro virtuali, mettendo in evidenza i rischi che può comportare e le sue peggiori conseguenze. Un dramma sociale che si fa specchio della società contemporanea attraverso il racconto di tre storie incrociate.

Come è nata l’idea film?

Lo sceneggiatore Andrew Stern stava a cena con cinque amici e notava che stavano tutti sempre al telefono, non riuscendo mai a parlarci. E’ lì che è nata l’idea del film. Volevamo trattare un fenomeno che vediamo crescere sempre di più, un fenomeno che tra l’altro ancora non ha un nome.

Un fenomeno che, come si vede nel film, può avere conseguenze terribili. Perché però ha scelto un finale consolatorio?

Non sono d’accordo, non credo che il finale sia consolatorio, penso sia invece un misto di speranza e tragedia, bellezza e tristezza. Personalmente non amo l’happy end all’americana perché non credo rispecchi la verità delle cose. La cosa che ritengo importante del mio film è che ti fa pensare e ti rimane dentro. Ecco, la mia speranza è che questo film vi resterà dentro più di altri.

Perché ha scelto questo titolo?

La parola “disconnect” ha due accezioni, è un verbo ma anche un sostantivo. Ho solo cercato di fare il film con massima onestà, descrivendo il modo di comunicare nuovo degli ultimi dieci anni. Il film è un tentativo di esplorare questo. È un film che tratta la necessità di avere persone vicino.

Dal film non esce una bella immagine dei social network, eppure i personaggi sembrano trovare l’unica consolazione proprio su internet…

Sì, è vero, ha ragione. Tutti abbiamo vissuto la solitudine e l’unica cura è il contatto con le altre persone, perché siamo una razza sociale. La magia di internet è che ti dà una cura alla solitudine molto veloce anche se spesso può avere conseguenze negative. Il film è un’esplorazione di questa contraddizione. Io filmo quello che vedo attorno a me. Spero ci sia verità nel film come in un documentario. Il modello che ho usato è quello di origliare la vita. Oggi noi comunichiamo in modi diversi e non abbiamo dato regole a questi nuovi tipi di comunicazione, quanto dovremmo stare su internet, se è maleducato mettere il cellulare sul tavolo, insomma abbiamo una tecnologia che non abbiamo ancora “regolato”.

Che tipo di ricerca ha fatto prima di realizzare il film?

Mi sono approcciato al film come un documentarista. Non sono un regista di fiction, ma di documentari, e quindi per me questa è stata una sfida, una grande esperienza. Mi sono attenuto al metodo dei documentari, ogni storia ha avuto una ricerca approfondita. Abbiamo svolto un lavoro di ricerca incredibile, ho offerto ai miei attori una persona che aveva avuto esperienze simili, alcuni attori hanno deciso di passare molto tempo con queste persone. Anche da un punto di vista visivo ho cercato di far tesoro della mia tecnica documentaristica, usando il grandangolo e piazzando le macchine da presa lontano dagli attori, che spesso addirittura non sapevano neanche da dove li riprendevamo.


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