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Intervista a Michelangelo Frammartino

Pubblicato il 10 novembre 2004 da Mazzino Montinari


Intervista a Michelangelo Frammartino

Michelangelo Frammartino è il regista del sorprendente Il dono, film che ha ottenuto numerosi premi e consensi da parte della critica italiana e straniera. In concorso a Sulmona, il regista ha spiegato il suo linguaggio cinematografico, fatto di campi lunghi, camera fissa e pochi dialoghi. Una realtà che ogni spettatore deve cercare di interpretare.

Emanuele Crialese non pensava di girare Respiro, poi si trovò a Lampedusa e realizzò quel film. Nel caso tuo, Caulonia è stata fondamentale per l’ideazione de Il dono?

E’ indubbio che linguaggio e spazio siano due elementi destinati a condizionarsi reciprocamente. Lo dico anche in virtù del fatto che da architetto trovo questo rapporto molto interessante. Va detto che ormai da alcuni anni sto lavorando sulla fissità della camera e sui campi lunghi, insomma su un certo modo di riprendere la realtà. Il mio precedente lavoro sulla periferia milanese ha un linguaggio cinematografico sostanzialmente comune a quello de Il dono. Certo, a Caulonia questo tipo di linguaggio ha trovato un equilibrio particolare con il luogo, con gli spazi. Come se tornare nei luoghi della mia infanzia avesse riportato alla luce qualcosa di inconscio, un’origine che non riconoscevo dei miei interessi. Per fare un esempio concreto, mi interessava realizzare un film dove il confine tra interno e esterno non fosse così visibile, anzi tendesse a dissolversi. E’ uno dei miei temi ricorrenti. E Caulonia è un luogo dove, appunto, questo confine tende a sparire, il dentro si confonde con il fuori. Se a Milano la casa è uno spazio chiuso e separato dalla città, a Caulonia le abitazioni non sono un corpo estraneo. Penso a quando ero piccolo e vedevo il pastore che portava la capra dentro la casa, eliminando ogni sorta di barriera tra l’esterno e l’interno.

Nei luoghi che riprendi compaiono oggetti che entrano in contrasto tra loro e che mostrano la contraddizione di un paese che vive tra arcaicità e contemporaneità.

Anche per la scelta degli oggetti vale lo stesso discorso del dentro-fuori, dell’assenza di un confine tra animato e inanimato, tra antico e moderno. C’è un effetto spaesante, un conflitto tra opposti che confonde una realtà più che delinearla. Da questo punto di vista, per citare un momento del film, il telefonino che appare nella casa del protagonista non voleva mettere in evidenza il fatto che quell’uomo non sa usare un oggetto comune e moderno, quanto il fatto che il cellulare dentro quel luogo richiami a un altrove.

Come hai preparato gli attori e come ti sei trovato a lavorare con dei non professionisti?

Con Gabriella ho ragionato in termini quasi professionali dato che, pur essendo una scenografa, aveva maturato qualche esperienza d’attrice. Con gli altri mi sono impegnato per impedire che recitassero. Sapendo che partecipavano a un film, inizialmente hanno cominciato a interpretare un ruolo con degli esiti che si possono ben immaginare. In particolare, nel caso di mio nonno, è venuto a Milano e in quel lasso di tempo ho cercato di destare la sua attenzione su se stesso, sui suoi gesti quotidiani. E poi sul set ho rubato delle immagini a sua insaputa. A un certo punto, però, se ne è accorto ed è cominciato uno strano gioco per cui noi credevamo di sorprenderlo mentre era lui a prenderci in giro facendo finta di non sapere. Ancora una volta emerge un problema di confine, tra realtà e finzione.

Come è maturata la scelta dei continui campi lunghi? Avevi l’esigenza di oggettivare la realtà che riprendevi?

Ho voluto inquadrare una realtà da “sgrossare”, da interpretare. Non sono interessato a dare una mia rappresentazione dell’esistente, stringendo il campo e disegnando i miei quadri. Il racconto richiama lo spettatore a interpretare. Questi campi lunghi lasciano la libertà a ognuno di andare a cogliere le proprie cose. Lo stesso si può dire per i personaggi che non esplicitano i loro sentimenti e che lasciano una realtà tutta da comprendere. E aggiungo che anche per quanto riguarda la musica ho deciso di non utilizzarla perché è un linguaggio potente che si può sovrapporre alla realtà espressa per immagini finendo col sovrastarla e chiarirla.

Il tuo film sta andando bene nei festival. Non è che si sta imponendo una nuova forma di distribuzione che prescinde dalla sala?

Alcuni distributori francesi esprimevano la loro preoccupazione proprio per questa situazione. Personalmente non sono preoccupato. Abbiamo scelto per una serie di motivi il circuito culturale. Il cinema che faccio forse si adatta a quel tipo di distribuzione. Onestamente, in sala non so quanto pubblico farei. Di fatto nei tanti festival ai quali ho partecipato ho avuto la possibilità di rendere visibile il mio film.

[novembre 2004]


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