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Intervista a Paolo Benvenuti

Pubblicato il 27 gennaio 2009 da Gaetano Maiorino


Intervista a Paolo Benvenuti

Rotterdam 2009. Il Festival Internazionale di Rotterdam dedica una retrospettiva a Paolo Benvenuti, uno degli registi meno conosciuti del cinema italiano, ma che a pieno titolo si può considerare un vero Autore. Sette lungometraggi più numerosi corti, proiettati per ricostruire la carriera di un vero artista, formatosi come pittore ma poi passato al cinema per dare più respiro alla sua arte.
L’abbiamo incontrato dopo la proiezione di Tiburizi, storia di un bandito toscano dell’ottocento, uno dei suoi lungometraggi più riusciti, sia per capacità narrativa che per stile.
Insieme a lui abbiamo incontrato anche con Paola Baroni, sua moglie e co-regista dei suoi ultimi tre lungometraggi: Gostanza da Libbiano, Segreti di Stato e Puccini e la Fanciulla.

Signor Benvenuti, cominciamo dalla preparazione di un film. è evidente il lavoro che è alle spalle di ciascuna delle sue pellicole, come si documenta in questa fase?

Paolo Benvenuti - Bisogna partire dall’idea che di base io sono uno storico, il mio vero lavoro è la ricerca. Il film è solo il mezzo che scelgo per divulgare la mia ricerca. Ho scelto di fare film perché considero il cinema l’arte più completa che l’uomo abbia creato, è espressione totale dell’animo umano: include il testo, le icone, le immagini, il suono, la musica, la poesia e tutto confluisce e viene trasmesso in un singolo sguardo. Prima di ogni film il lavoro di ricerca storica delle fonti dura anche quattro o cinque anni e senza prima finire questo lavoro non è possibile che cominci il lavoro sul set. La cosa interessante è che spesso capita di imbattersi in eventi che la cronaca ha travisato e quindi il lavoro di ricerca storica si realizza in un sovvertire la storia stessa.

Cosa deve avere un personaggio o un avvenimento per mettere in moto questo percorso di ricerca?

PB - Sono una persona molto curiosa soprattutto sulle cose poco chiare. Tutto secondo me ha origine da qualcosa, ma spesso non ci è dato sapere cosa, perciò mi appassiono ad argomenti come per esempio la mafia, di cui tutti parlano ma nessuno sa davvero come si sia creata. Lo stesso è accaduto sulla figura di Gesù, personaggio che con le sue azioni ha segnato la storia e fondato una mentalità che in grandissima parte ci condiziona. Proprio da questa curiosità è nata una trilogia che è composta da Il bacio di giuda, Confortorio e Gostanza da Libbiano, che spiega proprio come in realtà l’insegnamento cristiano sia poi stato stravolto dalla gerarchia ecclesiale.

È un po’ il mutarsi di un ideale in potere.

PB - Esattamente. Quando il messaggio cristiano viene travisato e si struttura nella chiesa una gerarchia, un sistema piramidale di potere, allora si manifestano le aberrazioni del potere stesso, che ha bisogno di un nemico per legittimarsi, ma questo è un discorso generale che travalica il semplice caso del potere ecclesiale. Per tornare alla trilogia, proprio l’analisi trasversale del pensiero cristologico è approfondita per evidenziare come in realtà alla base della filosofia moderna ci sia questo insegnamento, ma la Chiesa doveva trovare un nemico per legittimare il suo potere temporale e l’ha individuato prima in Giuda il traditore, poi negli Ebrei e infine nelle donne. E l’assurdità è che Gesù era un ebreo che parlava ad ebrei e che è stato il primo nella storia a considerare le donne alla pari degli uomini, cosa impensabile a quei tempi e ancora per molto tempo a seguire.

Il punto di vista scelto per raccontare la storia è però sempre laterale, come sceglie da dove partire?

PB - Dopo il gran lavoro di analisi e preparazione arrivo al film tramite piccole storie, micro-eventi per raccontare macro-eventi. Le piccole storie sono storie esemplari, trasversali alla storia e mi danno la possibilità di narrarla in maniera differente, quindi alla fine scelgo Giuda per raccontare Gesù, Dora per raccontare Puccini, il pentito Pisciotta per raccontare la mafia. Parto sempre dagli ultimi per raccontare i primi, chi sta più in alto e cioè il potere. Addirittura per Segreti di stato la micro-storia porta a una macro-storia internazionale.

Proprio in Segreti di stato c’è una sequenza molto significativa: una folata di vento fa volar via tutte le carte con le quali l’avvocato stava ricostruendo la vicenda. Vuol dire che in realtà la storia non può essere mai del tutto compresa?

PB - Detta così è molto pessimistica come visione. In realtà la folata di vento simboleggia qualcos’altro. Se guarda bene dopo che le carte sono volate via, due di esse si accostano e permettono all’avvocato di avere un’altra idea, di collegare con più precisione due avvenimenti. È un caso fortuito che però apre un’altra strada e la folata di vento è un po’ il simbolo di quel coraggio di ripartire che bisogna avere, con umiltà e entusiasmo.

Cambiando quindi il punto di vista.

PB - Sì è il punto di vista che cambia la percezione. E questo vale per tutto il mio cinema. A tale proposito è significativo un aneddoto: nella mia vita ho avuto la possibilità di incontrare Roberto Rossellini ed è stato un incontro che ha condizionato il mio lavoro per sempre. Gli chiesi come posizionare al meglio la macchina da presa per girare una scena, come scegliere il punto di vista migliore per un’inquadratura e la sua risposta fu che un soggetto può essere ripreso da infinite posizioni, ma quella giusta è quella che permette di dare allo spettatore il maggior numero di informazioni. E da allora il mio punto di vista è stato questo, e il mio lavoro è stato sempre quello di riuscire a informare il pubblico il più possibile. Lavorando così mi sono anche accorto che l’inquadratura acquistava maggiore bellezza, derivata dal mettere la macchina da presa nella migliore delle posizioni.

È quindi quello suggerito da Rossellini un metodo che ha applicato dall’inizio della sua carriera cinematografica?

PB - In realtà la mia carriera si può dividere in 3 periodi, il primo dal ’68 all’83 in cui giravo film in 16mm e in cui il mio operatore era mio padre, documentarista degli anni ’40 e ’50, quindi ciò che ho realizzato in questo periodo è più frutto di una mediazione spesso raggiunta dopo aspre discussioni. A partire dal cortometraggio Il Cartapestaio poi sono stato io a decidere tutte le inquadrature e quindi c’è stato il passaggio al secondo periodo, in cui ho poi iniziato a lavorare al progetto di un film in 35mm che è Il bacio di Giuda, anche se poi mi ci sono voluti 10 anni per realizzarlo. Ed è il periodo della trilogia cui accennavo prima. Poi dopo l’incontro con Paola Baroni è iniziato il terzo periodo, caratterizzato dalla nostra collaborazione alla regia, un periodo in cui c’è un approccio e un atteggiamento più materno. Ma forse lei può spiegare meglio come sono andate le cose.

Paola Baroni – più che altro con il mio arrivo, c’è una valorizzazione dell’aspetto femminile e un approfondimento dei personaggi femminili nel cinema di Paolo, personaggio che prima erano solo tratteggiati, presi ad esempio per descrivere un’idea generale, un mondo, ma che non avevano mai una vera identità individuale. In realtà il mio ruolo è un po’ più quello di ordinare l’enorme lavoro di ricerca che fa Paolo. Quello che faccio è trovare il vettore che guidi nella scrittura della sceneggiatura e elaborare la migliore sintesi possibile tra il lavoro di ricerca e il lavoro di realizzazione del film. Basti pensare che solo con il materiale trovato per Segreti di stato si potevano girare quattro film, il mio compito è stato quello di individuare i punti di svolta necessari e utili a una chiara esposizione dei fatti. L’inserimento di un altro personaggio oltre a Pisciotta attorno al quale far ruotare la vicenda è stato fondamentale e l’avvocato (interpretato da Antonio Catania ndr) è un elemento esterno quindi più lucido e funzionale alla ricostruzione.

Un lavoro di supporto e di complemento

PB – Un lavoro sulla parte emotiva che si integra a quella storica

PBar – Sì che si manifesta in vari modi come ad esempio il gran lavoro sul suono che viene realizzato in Puccini e la fanciulla. Paolo è sempre stato uno dei registi più attenti al sonoro, ha sempre curato moltissimo questo aspetto del suo cinema e io mi sono inserita sulla sua scia, portando le mie capacità senza però stravolgere il suo lavoro rispettando il suo cinema precedente.

Lei inizia la sua carriera artistica come pittore e la sua formazione si ripercuote di continuo nel suo cinema. In Tiburzi ad esempio, sembra una vera e propria composizione pittorica la prima immagine in cui si vede il protagonista, ripreso in una sorta di nicchia che somiglia a un trono, sintesi perfetta tra l’essere idolo da venerare e potere da temere.

PB – Esattamente, quella scena voleva proprio dare questa impressione. Tiburzi è una sorta di mito per il popolo ma allo stesso momento è colui che detiene il potere, colui che comanda nella Maremma. Altre due immagini lo rappresentano in maniera perfetta, il cinghiale, animale considerato il re di quei boschi, e il toro, per il suo rappresentare la divinità. Ma al di là del singolo caso, io devo molto alla mia formazione pittorica. La ricerca che compio all’inizio di ogni film passa anche dallo studio dei quadri del periodo in cui è ambientata la vicenda narrata. Per Gostanza da Libbiano mi sono basato sulle immagini dipinte da Angiolo Bronzino, un pittore della corte Medicea, per Puccini e la fanciulla ai macchiaioli amici del musicista che frequentavano la sua casa, per Il bacio di Giuda abbiamo addirittura fatto un excursus di tutti i maggiori pittori da Giotto a Caravaggio, 300 anni di storia dell’arte. Il tutto si ripercuote sulla composizione e sulla postura degli attori. È in fondo dipingere con il cinema, ricostruire lo sguardo di chi ha vissuto quell’epoca.


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