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Intervista a Salvatore Maira

Pubblicato il 25 maggio 2009 da Gaetano MaiorinoViviana Eramo


Intervista a Salvatore Maira

Nell’accogliente cornice del cinema Aquila, abbiamo incontrato il regista Salvatore Maira, in occasione dell’uscita nelle sale del suo ultimo lungometraggio, Valzer. Cordiale e disponibile, ci ha raccontato la genesi e lo sviluppo dell’idea di realizzare un film in un unico piano sequenza.

Parliamo di Valzer. Com’è nata l’idea di girare un piano sequenza di novanta minuti e perché? Quali sono state le difficoltà?

L’idea del piano sequenza e l’idea alla base del film sono nate insieme. Non è nata prima la storia e poi la decisione di girare in piano sequenza, per puro estro fine a se stesso. Tantomeno è successo il contrario, non ero alla ricerca della storia adatta per realizzare un film virtuosistico. Come dice lo stesso titolo, c’è stata all’inizio un’ispirazione quasi musicale nel pensare a una storia che avesse l’andamento avvolgente del valzer. E’ una storia già nata, potremmo dire, coi suoi movimenti di macchina dentro di sé. Volevo esprimere una forma estrema di disagio e smarrimento e ho pensato che tutto ciò avrebbe avuto senso se il disagio e lo smarrimento avessero fatto parte del corpo del film.

Queste sensazioni riassumono bene l’effetto che Valzer ha sul pubblico, il quale non è assolutamente abituato a vedere film del genere...

Certo. Proprio questo intendevo: lo smarrimento e il disagio dovevano far parte della materia linguistica del film e non soltanto della storia, della vicenda, del dialogo, della parte letteraria. Quindi il piano sequenza e il tema da narrare nascono insieme e dovevano essere realizzati insieme. Gli attori, io e i tecnici dovevamo vivere questo smarrimento.

Il film è piuttosto rivoluzionario rispetto a ciò che si vede in genere in Italia, per la scelta di eliminare il montaggio, uno dei pilastri del linguaggio cinematografico. Allora Valzer è ancora cinema o è piuttosto più prossimo al teatro?

No, il teatro non c’entra nulla. Lo spazio e il suo rapporto con la figura nel teatro sono fissi. Nel cinema lo spazio si inventa frammento per frammento ed è ciò che la cinepresa disegna. Il montaggio è una rete di salvataggio, un procedimento di riscrittura del film che in questo caso io non volevo. C’era la voglia di lanciarsi senza reti, fare l’esercizio senza protezione. In realtà però la mancanza materiale di montaggio in questo film non è la sua mancanza totale. Durante la proiezione, gli spettatori che non sanno cosa sia un piano sequenza non si accorgono della sua assenza e chi lo sa dopo cinque minuti se ne dimentica, cosa che mi rende addirittura più orgoglioso di ciò che ho realizzato. Questo effetto non è casuale perché ho girato il film come se dovessi montarlo esattamente secondo la grammatica del cinema classico. Se al contrario, la cinepresa si fosse mossa col solo scopo di farsi vedere, dopo cinque minuti qualunque spettatore avrebbe abbandonato la sala. In realtà tutte le scene sono costruite secondo uno schema di montaggio assolutamente tradizionale (totale, primo piano, campo e controcampo), ma invece di essere scritto dopo, si scrive mentre si va facendo e gli attori ne sono protagonisti insieme alla cinepresa, invece di subirla.

A tal proposito, cosa puoi dirci sulla preparazione degli attori?

E’ merito degli attori se si è potuto fare il film. Non hanno realizzato un film, ma sposato una causa. Dopo i primi giorni hanno capito che dovevano anche compiere l’impresa di arrivare al novantesimo minuto.

Dopo aver visto Valzer mi è tornato alla mente uno dei tuoi film precedenti, Amor nello specchio. In entrambi mi sembra si possa rintracciare una certa sensibilità nei confronti della figura dell’attore. Puoi dirci qualcosa in proposito? E come ti comporti nella direzione degli attori sul set?

Io ho un’enorme considerazione del dramma dell’essere attore. Gli attori sono coloro che, tra gli artisti, vivono la condizione di maggiore fragilità, perché scrivono il loro testo anche con il corpo. Per un attore, un rifiuto o un fallimento significano quasi l’annientamento fisico. Ecco perché nella vita di tutti i giorni gli attori si comportano in maniera diversa dagli altri, come forse era raccontato in Amor nello specchio. Nella direzione degli attori, uso il metodo di non dare mai prescrizioni precise per costruire il personaggio come fosse una marionetta che va disegnata e montata. È bene che ogni attore abbia il suo linguaggio e per poterlo utilizzare deve trovarsi in una condizione e in un’atmosfera in cui si sente contemporaneamente protetto e libero di potersi esprimere. Quindi il mio lavoro con gli attori è di creare le condizioni favorevoli in cui possano eseguire le loro performance.

Il cast è stata una tua scelta?

Sì. Ho scelto sulla base di esperienze pregresse con gli attori stessi e seguendo i consigli dei miei collaboratori. Dopo i vari incontri mi son convinto delle scelte. Senza il fondamentale contributo degli attori, il film non si sarebbe potuto realizzare.

Come li hai preparati a girare novanta minuti di seguito?

La preparazione è stata molto programmata. Dapprima sono andato da solo nell’albergo dove avremmo girato il film per capire se il percorso che avevo in mente era materialmente realizzabile. In seguito l’assistente alla regia mi ha seguito con una telecamera, mentre io camminavo e raccontavo i personaggi scena per scena. Il dvd così realizzato è diventato materia di studio per i tecnici e per gli attori, i quali, quando sono arrivati sul set, già conoscevano esattamente il percorso del film. C’è stata, inoltre, per alcuni attori la lettura a tavolino del copione. Quando infine sono arrivati sul set abbiamo provato unicamente con gli interpreti e successivamente anche con i tecnici contemporaneamente. Ogni scena potevamo vederla immediatamente e quindi decidere anche le singole inquadrature.

Parliamo dei finanziamenti al film...

Il film è totalmente autoprodotto da quattro o cinque persone. L’impegno era farlo costare pochissimo, ma non ci siamo riusciti del tutto perché qualche debito l’hanno accumulato (ride, ndr). In ogni caso, siamo rimasti nell’ambito di un film a bassissimo costo. É stato possibile perché io e tanti collaboratori abbiamo accettato una paga simbolica, compresi Valeria Solarino e Maurizio Micheli. La location ci è stata concessa gratuitamente dall’albergo. Un piccolo sostegno per le trasferte e il soggiorno ci è stato accordato dalla Film Commission Torino Piemonte. I finanziamenti pubblici comunque non li abbiamo mai chiesti, perché avevamo la consapevolezza che farlo avrebbe significato non realizzare il film o mettersi in una condizione che avrebbe fatto diventare il film un’altra cosa.

E la distribuzione?

La distribuzione non si è trovata per quanto il film abbia avuto successo di critica, di pubblico e nei commenti generici alla Mostra di Venezia. Muller è stato messo sotto accusa dal “Corriere della Sera”, secondo cui il film avrebbe dovuto partecipare in concorso. Purtroppo io non mi meraviglio di questa situazione, visto che la maggioranza dei distributori ha la tendenza a lavorare con Rai e Mediaset. Della distribuzione pertanto ce ne siamo occupati noi stessi, cercando di città in città, chiedendo a ciascun esercente, come agli albori del cinema.

Ci piacerebbe spiegassi una sequenza in particolare, quella del flashback. In particolare l’inizio del passaggio temporale.

Abbiamo realizzato una dissolvenza in diretta, ma senza farla. Quando la cinepresa lascia la Solarino e va verso la stanza per far apparire la ragazza palestinese, c’è uno scemare improvviso di tutti i suoni, mentre la voce dell’attrice sale come fosse in voice over, invece lei è lì. Contemporaneamente c’è un piccolo spot che aumenta d’intensità. Il passaggio è stato realizzato per dare l’impressione di un diaframma che entra in un altro, con leggerezza e naturalezza. Io odio la tecnica del flashback, perciò dovevo reinventarlo. Non è stato comunque semplice, dato che le attrici dovevano cambiarsi d’abito e truccarsi in un tempo minimo. Hanno fatto, infatti, degli esercizi di velocità per spostarsi sulla superficie a più piani dell’hotel. E’ stata anche una prova atletica questo film! (ride, ndr). Nelle scene nell’ascensore non entrava tutta la troupe, ma solamente l’attrice, l’operatore e chi si occupava dei fuochi, il quale era costretto a stare in ginocchio. Io seguivo il tutto da un monitor e spesso dovevo fare tre piani a piedi di corsa per riuscire ad incontrarli appena uscivano dall’ascensore.

Quindi il piano sequenza è in questo film l’antidoto all’ipertrofia visiva?

Il piano sequenza qui è l’antitelevisione, ma per fare in modo che lo sia deve essere strutturato secondo un linguaggio cinematografico. Non basta mettersi a seguire gli attori in giro con una videocamera!

Il cinema ha ancora quindi la capacità di resistere alla televisione ed è questo il modo?

Il piano sequenza è un modo, ma non può certo diventare uno stile, forse non lo ripeterò più. In fondo, la differenza tra la stagione del grande cinema italiano e il cinema di oggi è che attualmente si fanno delle storie, un tempo, invece, ogni film era un’idea di cinema. La forza dei grandi registi italiani era costituita dal fatto che ognuno non solo esprimeva un mondo poetico, ma pure una visione del cinema. Oggi tutte le storie e tutti gli stili sono intercambiabili.

È possibile in Italia un’evoluzione del linguaggio cinematografico che vada contro la tendenza televisiva?

Secondo me, no. Può succedere, ma in maniera casuale e episodica. Non è possibile perché le televisioni sono i maggiori produttori di cinema e impongono - insieme a tutto il resto – anche il gusto, secondo un fenomeno tutto italiano.

Hai progetti per il futuro?

Ne ho uno, ma non so se lo perseguirò, visto le difficoltà realizzative. (sorride, ndr). Forse ne scrivo un libro, poi si vedrà.


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