Intervista a Stefano Savona
Torino, 2 Dicembre 2010
Incontriamo il regista Stefano Savona che accompagna, al Festival di Torino il suo documentario Spezzacatene.
Come è nata l’idea di questo documentario?
Di solito, quando inizio a preparare un documentario, cioè quando trovo una storia che mi interessa raccontare, lo faccio senza avere ancora una produzione. In questo caso è stato diverso: due anni fa abbiamo ottenuto un finanziamento regionale per un lavoro che avremmo potuto svolgere in maniera abbastanza libera, ed allora mi sono chiesto quale fosse la mia urgenza principale di fronte alla possibilità di raccontare la Sicilia. Ho pensato che da moltissimo tempo volevo raccontare il mondo contadino della mia regione, eliminando ogni luogo comune ed ogni sovrastruttura. E questa avrebbe potuto essere l’ultima occasione per farlo, visto che rimangono pochissime persone in grado di dare una testimonianza diretta. Era già quasi troppo tardi...
Perchè hai scelto di far parlare tutte persone nate non oltre il 1930?
All’inizio abbiamo provato anche con persone più giovani, ma ci siamo subito accorti che c’era in loro qualcosa di diverso rispetto a quelli nati entro il 1930. Chi è nato dopo ha sviluppato un altro modo di comunicare, possiede un altro tipo di linguaggio. Racconta le cose in maniera diversa, ed ha una relazione col mondo della campagna diversa rispetto a chi è nato prima. Il loro rapporto è filtrato dai cambiamenti che sono avvenuti durante la loro vita, soprattutto risentono del rapporto con la televisione.
Perchè nelle tantissime testimonianze che hai ricavato (circa 170) hai scelto di partire dal cibo?
Ci interessava trovare una chiave per costruire una relazione non ufficiale ma il più possibile intima. Volevamo che emergesse qualcosa di sommerso ma di fondamentale per le persone che abbiamo scelto di incontrare. Per ciò abbiamo deciso di partire dai sapori dell’infanzia, dai ricordi che passano per il cibo. Ci siamo ben guardati dal chiedere loro le ricette tipiche della zona, ma ai nostri intervistati, anche se forse sarebbe meglio dire ai nostri testimoni, visto che più che di interviste il nostro lavoro è fatto di testimonianze, abbiamo cercato di far ricordare il loro rapporto con il cibo, e a loro veniva naturale iniziare a parlare dello sfamarsi.
Perchè solo queste sei storie, dalle più di centosettanta che avete raccolto?
Innanzitutto questo è un primo montaggio di un lavoro che proseguirà. Quanto si vede in Spezzacatene è una sorta di epicentro del grande lavoro fatto da due anni in qua. Le storie raccontate provengono tutte dal territorio tra Piana degli albanesi e la Valle del Belice. Più in generale abbiamo raccolto interviste in tutta la Sicilia, battendola a tappeto, ed andando a cercare tutte persone nate prima del ’30. Poi abbiamo iniziato a montare dei ritratti, stando molto attenti a mantenere l’individualità di ognuno dei nostri testimoni. Accostandoli, poi, si è cercato di raccontare un territorio, ma nessuna storia deve essere piegata all’esigenza di una narrazione collettiva. L’individualità di ogni ritratto è fondamentale nel nostro documentario.
La tua telecamera, nel film, è sempre ferma, c’è pochissimo montaggio...
La cosa più difficile da trovare è stato il dispositivo di ripresa giusto. Ci siamo presto resi conto che i campi e i controcampi non funzionavano. Non abbiamo fatto guardare in camera i nostri testimoni, ma abbiamo cercato di usare un obiettivo che ci permettesse di stargli molto vicino senza deformarli. Il tentativo, come ho già accennato, era quello di costruire una relazione il più diretta possibile, con un’inquadratura che desse loro la possibilità di muoversi liberamente. Non c’è molto montaggio nel film perchè il montaggio lo fa il testimone con il suo movimento, sia fisico che vocale. Il dispositivo di ripresa scelto, molto semplice, ripeto, è stato fondamentale, perchè solo così si potevano rispettare i tempi della narrazione di quelle persone. Che non si potevano affatto eliminare solo per dare più velocità al film. Era necessario rispettare il ritmo del loro narrare, anche se all’inizio eravamo spaventati da questo modo di riprendere. Ma è stato come entrare in una tela, e una volta dentro ci siamo lasciati guidare naturalmente. Siamo stati molto tempo con i nostri testimoni, anche più di un’ora per volta, per entrare nei loro tempi e nei loro modi di comunicare il ricordo.
Spezzacatene, un lavoro sulla memoria...
Un lavoro di riscostruzione della memoria. Per eliminare il più possibile i luoghi comuni, vista la grande presenza della tv e le sovrastrutture che questa, e non solo questa, hanno creato. Persino per questi testimoni è stato difficile essere autentici, e i figli stessi, è capitato che in qualche modo avessero la tentazione di bloccare il fluire di ricordi dei loro genitori. Lo scopo del nostro lavoro era proprio di tirare fuori questa autenticità nascosta. Per farlo abbiamo cercato di rimanere da soli con loro, abbiamo atteso che riuscissero a ripescare ricordi lontani e quando lo facevano ci accorgevamo che cambiava anche il loro modo di comportarsi, e di raccontare. Era come se il ricordo di quelle persone si fosse fossilizzato molto in profondità. Questo tipo di lavoro sulla memoria non esiste molto nemmeno nel documentario. Si è preferito, storicamente, ricostruire il passato attraverso temi come il lavoro, per esempio, e più in generale attraverso i gesti fisici.
Grazie Stefano, e a presto..
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