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Intervista a Takashi Miike

Pubblicato il 25 giugno 2011 da Giampiero Francesca


Intervista a Takashi Miike

In occasione dell’uscita di 13 Assassins nelle sale italiane, riproponiamo l’intervista con Takashi Miike, realizzata all’ultimo festival del cinema di Venezia per la presentazione di questo film.

13 Assassini è un film molto particolare all’interno della sua vasta filmografia. Anche nella rappresentazione della violenza sembra differenziarsi molto dal suo solito stile, normalmente più carico, più gore...

Effettivamente volevo evitare il solito effetto gore. Il mio obiettivo era restare quanto più fedele possibile al lavoro originale, esattamente così com’era. Per questo anche la rappresentazione della violenza è diversa. Il sangue c’è, come il fango, lo sporco, ma sono solo elementi che servono a dare un colore diverso a tutta la pellicola.

In compenso la descrizione delle ambientazione e dei personaggi è molto dettagliata...

Anche in questo caso ho cercato di essere quanto più preciso possibile nei dettagli sempre per rispettare il lavoro originale. Per esempio la donna che viene violentata all’inizio del film ha i denti neri e le sopracciglia rasate proprio perché la concezione dell’epoca voleva che una donna, una volta sposata, diventasse sostanzialmente di proprietà del marito. Per questo, diventata moglie, non doveva più provare ad essere bella. In altre scene invece, quelle che erano illuminate solo dalle candele, abbiamo reso i volti delle attrici molto più bianchi e pallidi. Una cosa molto strana per il cinema giapponese contemporaneo. Sembra che oggi se hai un’attrice devi per forza farla apparire bella, non puoi colorarle i denti di nero o darle un colorito pallido. In 13 assassini invece tutto doveva essere quanto più possibile aderente all’originale, il trucco così come le acconciature.

Rimanendo sui personaggi, quello interpretato da Yûsuke Iseya, Koyata, sembra richiamare alla mente il personaggio di Kikuchiyo/Toshirô Mifune de I sette samurai di Akira Kurosawa

Prendere qualcosa dai film di Kurosawa è quasi ovvio in questi casi. Quando si realizza un film del genere infatti, anche inconsciamente, la sua influenza emerge, traspare. Il suo stile ha caratterizzato in modo ormai indelebile il nostro cinema. In 13 assassini ad esempio ho citato anche Sanjuero (Tsubaki Sanjûrô, 1962), sempre di Akira Kurosawa, così come molti altri registi giapponesi.

Comunque il personaggio di Koyata, e soprattutto la sua fine misteriosa, è una delle poche modifiche che ha fatto all’originale. Perché?

La fine di Koyata è ambigua. Sostanzialmente sopravvive e ritorna alla sua vita nei monti, ma molti spettatori possono anche immaginare che in realtà sia morto e solo il suo spirito sopravviva nel film. Questa differenza però non è importante. Koyata riesce comunque a raggiungere il suo obiettivo, uccidere i cattivi lasciando nella città solo un mucchio di corpi. Volevo che trasmettesse un senso di speranza. Volevo che ci si domandasse alla fine, qual’è il prossimo passo? cosa farà ora? come vivrà la sua vita?

Speranza e pace sembrano essere anche i temi cardine di 13 assassini. Cos’è per lei la pace?

E’ difficile definire in una sola parola che cosa sia la pace. E’ un concetto che cambia col tempo. Nell’epoca in cui si svolge 13 assassini, ad esempio, il popolo giapponese non vivevano in pace in quanto oppresso e spesso privo di veri diritti. In quel caso la parola pace coincideva con quella di libertà. Ed è un po’ il sogno, la speranza che è alla base del film, conquistare questa forma di pace. Nel Giappone contemporaneo invece possiamo dire di avere questa pace, possiamo dire di essere liberi, ma dovremmo forse chiederci quanto lo siamo davvero. Credo che il punto di partenza di questa riflessione, in ogni epoca, sia sempre guardare se stessi e porsi domande quali, come vivi la tua vita? come vorresti viverla? sei davvero libero?

Da questo film, ma in generale dalla sua produzione, emerge un profondo rispetto nei confronti dei generi classici del cinema giapponese. Come si pone quando affronta pellicole come 13 assassini da questo punto di vista?

Più che rispetto per il genere tradizionale provo molto rispetto per i film realizzati subito dopo la guerra. Il Giappone ne era uscito sconfitto e la gente cercava un modo di vivere, era ansiosa di sapere quale sarebbe stato il proprio futuro. Bisogna sempre considerare che i film sono lo specchio dei tempi. Quando Kurosawa girava i suoi film quindi non poteva che confrontarsi con il dramma che le persone provavano in quel periodo. La mia generazione è molto diversa da quella, quindi è una sfida per noi quella di chiederci come possiamo girare anche ai giorni nostri lo stesso tipo di pellicole che realizzavano allora.

Oggi quindi è comunque possibile realizzare questo genere di pellicole...

Ci sono moltissime differenze. La prima grande differenza è che all’epoca in cui furono realizzati quei film c’era un vero studio system ben sviluppato. Il Giappone cercava di diventare una potenza economica, ma non lo era ancora. Restava, di fatto, un paese povero. Il cinema era l’unico tipo di intrattenimento in grado di far dimenticare la realtà del duro lavoro dell’epoca. Riusciva in qualche modo a salvare le anime del popolo giapponese. Ora viviamo in un Giappone economicamente molto forte, in cui la tecnologia è progredita enormemente e la televisione ha preso il sopravvento. In questo mondo le vecchie case di produzione cinematografica si sono estinte come i dinosauri, e di molte di loro restano solo i vecchi film. C’è anche da dire che oggi sembra che tutti possano fare film. Se sei un freelance e trovi qualche sponsor, senza aver alcun contatto con uno studios, puoi realizzare il tuoi film. In questo modo però il sistema è sostanzialmente collassato. Credo che per evitare un collasso definitivo l’unica soluzione sia recuperare proprio le vecchie case di produzione, le loro conoscenze e i loro generi. Faccio un esempio concreto. Non ci sono più, in Giappone, i film a cavallo. Non ci sono più le maestranze, non ci sono fantini giovani, non ci sono più le figure in grado di girarli senza farsi male. Ecco, credo che dovremmo provare a cogliere l’occasione di ricominciare a produrre questo genere di film, anche se credo anche che non sia affatto facile.

Nella sua carriera ha affrontato moltissimi generi. C’è un motivo particolare per cui ama sperimentare sempre nuovi universi narrativi?

Probabilmente se si guarda dall’esterno la mia filmografia si può pensare: “wow, ma quanti film ha girato?”. Ho visto davvero tantissime reazioni diverse quando le persone vedono la mia filmografia così nutrita. Molti poi pensano che un regista debba o voglia sempre specializzarsi in un genere , diventandone sempre più padrone. Dal mio punto di vista invece credo non abbia senso fare una distinzione netta fra i generi. Penso, che so, che gli omicidi o le efferatezze di un horror possono avere molti elementi in comune con moltissimi altri generi. Per questo non mi piace fossilizzarmi su un singolo tipo di film. E’ un po’ come per il cibo. In Giappone abbiamo ovviamente dell’ottimo cibo giapponese, ma si mangia anche molto bene cinese, coreano e ci sono perfino dei magnifici hamburger. Così per me è ovvio cambiare ogni giorno, io preferisco mangiare così. Molti registi giapponesi invece preferiscono mangiare lo stesso cibo tutte le sere.

Fra i suoi film ci sono titoli tratti dai videogame, così come dai manga e dagli anime. Qual’è il suo rapporto con questa cultura pop?

Il mio rapporto con l’animazione giapponese è molto stretto. La gran parte dei prodotti d’animazione di oggi, se si guarda con attenzione, è basata sulla vecchia animazione, la stessa che guardavo da bambino. Erano anime che da un lato facevano divertire ma dall’altro lanciavano precisi e importanti messaggi, come, per esempio, l’importanza e il valore dell’amicizia. Penso che sin da allora l’animazione mi abbia molto influenzato tanto che oggi posso definirmi un vero fan di alcuni anime. Devo però anche ammettere che i prodotti d’animazione di oggi sono molto meno interessanti di quelli di un tempo.

A proposito di giovani. Fra i molti film che ha realizzato ha diretto anche film diretti ai bambini. Come si approccia ad un pubblico così particolare?

Innanzitutto credo che i bambini, in ogni parte del mondo, siano sempre gli stessi e amino le stesse cose, come i mostriciattoli dai grandi sorrisi. La cosa che però mi ha sempre maggiormente interessato in questo tipo di pubblico è quanto sia, ovviamente, più impressionabile. Comunque girare questo tipo di film è incredibilmente divertente. In un set in particolare mi sono trovato per giorni circondato da varie specie di demoni sorridenti.

Guardando al suo passato, come valuta il suo lavoro?

Non mi importa di quanto abbia girato, ne mi chiedo se sono mai soddisfatto di quello che ho fatto. Trovo, in fondo, difficile da definire lo stesso concetto di soddisfazione. Non penso mai cosa farò ora o sono contento di quello che sto facendo. Per me lavorare molto è come partecipare ad una corsa. Quando arrivi al traguardo senti una sorta di senso di realizzazione, ed è una sensazione che ho provato spesso. -


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