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Intervista a Vincenzo Marra

Pubblicato il 8 settembre 2012 da Giampiero Francesca


Intervista a Vincenzo Marra

Abbiamo incontrato Vincenzo Marra per la presentazione, alle Giornate degli autori di Venezia, del film Il gemello, ipotetico quarto capitolo di un progetto documentaristico sui luoghi di Napoli.

Come ambiente per questo suo quarto capitolo hai scelto di raccontare la vita di un detenuto del carcere di Secondigliano. Che luogo è il carcere di Secondigliano?

Secondigliano è un carcere, e come tutti i carceri, è un luogo di dolore, però ha la particolarità di sorgere a Scampia, di fronte a uno di questo grandi edifici della periferia nord di Napoli, che, per un caso, era uno di quelli che avevo ripreso in alcuni momenti di Vento di Terra. L’idea che usciti dal carcere, a trecento metri, ci sia un altro luogo di disperazione, le famose "vele", mi sembrava una cosa allucinante, molto forte, anche come primo impatto visivo. Poi però ho scelto do girare tutto il film all’interno. All’interno è un luogo di estremo dolore. Un luogo che, quando si ha la possibilità, la fortuna, di poter filmare dall’interno, senza filtri, restituisce tante piccole e grandi cose che penso pochi film abbiano restituito.

Con che spirito bisogna entrare in un luogo del genere per poterlo davvero raccontare?

Lo spirito è sempre stato simile in tutti i film, per quanto siano molto diversi, dagli ultras del Napoli, che hanno un estrazione popolare, al protagonista de Il grande progetto, film dedicato a Bagnoli, che è stato anche vice-sindaco di Napoli. L’approccio è sempre stato portare la mia faccia, la mia voglia di raccontare, la mia onestà intellettuale, dichiarando immediatamente che non avrei accettato limitazioni, se non quelle ovvie, anche per saggiare la voglia dell’altro di mettersi in gioco. Penso che la mia particolare esperienza di vita mi abbia dato la possibilità di stare in tutti i luoghi, quelli alti e quelli bassi, con gli stessi vestiti, con la stessa faccia, con me stesso.

Molti hanno definito il suo cinema zavattiniano, che ne pensa?

Nel 1999, quando ho filmato Estranei alla massa, ho fatto invece di capire come avrei dovuto fare. E l’ho fatto con un metodo che mi sembrava quello più urgente, più mio, più personale. Questa esperienza mi è tanto piaciuta, e anche i risultati che ho visto mi hanno così convinto, che questo metodo è diventato il mio metodo di lavoro. Un metodo che ho ripetuto negli altri capitoli di questo mio personale progetto. Un metodo che dopo Estranei alla massa ho affinato, crescendo. Nel ’99 avevo ventisette anni e ora che ne ho quasi quaranta è cresciuto con me. Credo che sia il modo più giusto per questo tipo di film e i risultati si vedono, anche nel pubblico. A tredici anni di distanza, evidentemente, è ancora un approccio attuale, non è datato. Molti hanno bisogno di mettere delle etichette, molti dicono "questo è l’anno dei carcerati", "questo è un metodo zavattiniano". Semplicemente attuo questo metodo perché è quello che mi viene meglio, che mi viene più spontaneo, più originale, sincero.

Il gemello è, appunto, il quarto capitolo del suo personale mosaico di Napoli. Che quadro sta venendo nel tempo della tua città?

Ci pensavo mentre venivo qui al Lido, in treno. Se mettessimo vicini questi film penso che, come mi ha detto uno dei miei amici, napoletano come me, si vedrebbe un aspetto molto napoletano; un po’ si piange, un po’ si ride. Questa per me è uni straordinario complimento spontaneo ed effettivamente, riflettendo oggi, è una sensazione che emerge pur non essendo stata pensata prima. Credo che ognuno di questi film strappi i due momenti, la risata e la lacrima

Il suo modo di raccontare la quotidianità carceraria nel film, la reiterazione dei gesti, restituisce allo spettatore un’idea di tempo immobile, congelato all’interno della prigione...

Questo era proprio uno dei motivi di grande discussione, un punto su cui riflettere bene. Io avrei potuto accelerare tutte le azioni, ad esempio le porte si sarebbero potute aprire subito, ma sarebbe venuto un altro film, più dinamico, modaiolo. Io sono attaccato alla alla realtà. Un altro film non avrebbe ridato quella verità, questa incredibile possibilità che questo film si è conquistato di far catapultare uno spettatore qualsiasi all’interno di un carcere. Mentre io ora sono qui, Raffaele sta lì, vivendo la stessa giornata, con quegli orari, rimangiando quel cibo. È una routine allucinante che io ho voluto non alterare nei ritmi. Ad esempio, in una scena, Raffaele chiama ripetutamente la guardia, che non gli apre la porta, perché la possibilità di uscire, quando deve fare qualcosa che gli è consentito, dipende sempre dalla guardia, non hanno la possibilità di muoversi liberamente. LÌ avrei potuto tagliare molto prima, mettere un "guardia!" e poi gli aprono, invece ho voluto metterci questa reiterazione. Perché è una situazione che restituisce angoscia. Improvvidamente capisci che tu sei in tre metri quadrati e non puoi uscire, hai ventinove anni, sei nel pieno delle forze, sei un animale in gabbia, anche se animale è brutto. È una sensazione infernale. È una situazione che non andava alterata. Non dovevo ingannare lo spettatore.


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