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Intervista ad Amir Naderi

Pubblicato il 20 gennaio 2003 da Alessandro Borri


Intervista ad Amir Naderi

Il grande regista iraniano Amir Naderi è venuto in Italia a presentare la sua ultima opera Marathon (che completa la “trilogia newyorchese iniziata da Manhattan by Numbers e ABC Manhattan) al Festival di Torino e al Roma Film Festival. Marathon è una specie di manifesto programmatico: un viaggio nel cuore di New York, quella emersa e quella sotterranea, che diventa paesaggio mentale, fatto di geometrie ossessive e labirintiche.

Nei film che hai realizzato negli Stati Uniti sei stato profondamente influenzato dalla vita e dalle sensazione metropolitane, in particolare di New York. Com’è stato l’impatto con New York venendo dall’Iran, e come sono nate le idee per la tua trilogia?

I miei film iraniani si possono dividere in tre fasi: i film sulla città, in particolare Teheran, i film sulla mia infanzia, e i film sul deserto. Sono partito dalla folla per finire nel deserto. Quando sono andato a New York, di nuovo sono stato coinvolto dalla città: i suoni, il traffico, la vita della gente, sono molti gli aspetti che compongono le sensazioni della metropoli. La prima impressione arrivando a New York è stata: io conosco questa città, la sento, è come se fossi già stato qui in precedenza. Dopo una settimana avevo già familiarità con essa. Pensavo: OK, questa è la mia nuova città, la mia nuova vita, devo conoscerne la lingua, la struttura, come vivono le persone, cosa significa essere un newyorchese. Mi sono sentito immediatamente a mio agio, ma poi ho passato anni a camminare, a scattare fotografie, a cercare - come cineasta - di catturare l’immagine di New York, il suo suono, la sua atmosfera. Per andare oltre la superficie dovevo essere nudo, spogliarmi della memoria precedente, essere puro come un bambino che reimpari a camminare, a parlare, a scoprire, ad assorbire. Tutto quello che è nei miei film adesso viene da quell’esperienza. Alla fine di quel periodo di passaggio è come se avessi avuto sangue nuovo nelle vene, e fossi pronto a ricominciare, a rinascere. Ovviamente amo il mio paese, rimango iraniano, ma adesso sono qui. Mi sono detto: voglio rimanerci per vent’anni, per vedere quanto posso immergermi nella città. Ho chiuso il mio passato dietro una porta chiusa per essere disponibile a tutto quanto poteva succedere. Certo era un grande rischio, me l’hanno detto tutti: i miei amici, la mia famiglia, Kiarostami. Ma era una sfida a me stesso. È proprio una sfida, andare a vivere a New York: per testare i tuoi limiti, per sapere quello che vuoi fare ed essere. Passi i giorni a correre dietro i soldi, dietro un sogno, senza magari ottenere niente. Quindi all’inizio degli anni ’90 ho fatto Manhattan by Numbers, in cui il personaggio principale fa un viaggio, dalla mattina al tramonto, attraversando New York. Il personaggio non trova quello che cercava, ma chi guarda ha scoperto man mano la città. È stata un’esperienza straordinaria per me. A quel punto, dopo aver descritto la città, per il secondo film dovevo avvicinarmi alle persone. Ho scelto tre ragazze che conoscevo, e le ho seguite, cercando di raccontare la vita di tre donne alla fine del secolo, ed ecco ABC Manhattan.

Poni una straordinaria attenzione al paesaggio sonoro e visivo in cui gli abitanti delle grandi città sono immersi costantemente. Quali altri registi secondo te oggi riescono a cogliere lo spirito della metropoli?

Quanti hanno realizzato film su New York, a parte i film commerciali, o quelli televisivi? Ho cercato di vedere tutti i film sulla città, dai film sperimentali di Stan Brackhage a Cassavetes a Scorsese, e ho pensato che io avevo la possibilità di adottare un altro punto di vista, avere un occhio nuovo, “esterno”. Non come quello di un turista che arriva a New York, ma quello di chi, venendo da fuori, ha cambiato il proprio sguardo a contatto con la città. È per questo che i filmmakers amano (certo più del pubblico) i miei film. Spesso mi hanno detto: Amir, hai visto qualcosa nella nostra città che noi non abbiamo mai visto, o che abbiamo visto ma non abbiamo saputo cogliere in questo modo.

Tra le tue influenze c’è il cinema italiano.

Ho perso i contatti col cinema italiano dopo gli anni ’70, quindi sono rimasto all’epoca d’oro che parte dagli anni ’40 per arrivare a Pasolini, Bertolucci, Bellocchio, Petri. Ho visto parecchi film italiani nuovi nei festival, ma mi pare abbiano smarrito la sensibilità, l’originalità di quel periodo. I registi hanno perso la loro identità italiana. Sono influenzati - spesso una cattiva influenza - dal cinema hollywoodiano, o di altri paesi. In questi giorni ho camminato per le strade di Roma, e ho pensato: non ho mai visto “questa” città al cinema. Una massa di gente per le strade, sempre, gente che cammina, che lavora, folla, rumore. Questa è Roma, è come una piovra che agita i suoi tentacoli. Una grande location, per i giovani filmmaker che vogliono fare esperienza. Invece ho visto la televisione. Che roba è? Come la televisione americana, solo che parlano italiano. A parte Gianni Amelio, dove sono i nuovi Rossellini? Non dimenticherò mai Umberto D. Oppure, è quasi un cliché, ma: Ladri di biciclette. Oggi questa città, questo materiale, non sono affatto sfruttati. Lo sapete com’è nato il nuovo cinema iraniano? Niente accade accidentalmente. Ci siamo messi in una stanza, io, Abbas Kiarostami e altri, abbiamo parlato, giorno e notte, per quattro anni. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo fare dei film che restino sulla nostra realtà, perché nessuno sa niente sull’Iran. E poi abbiamo visto film del neorealismo italiano, delle new wave dei vari paesi, dalla Francia all’Ungheria al Giappone. Così è esploso il cinema iraniano.

Perché hai usato il bianco e nero per raccontare New York?

Il bianco a nero mi fa impazzire. Vorrei fare un documentario su Gianni di Venanzo, che è stato una grande influenza per me. Se usi il colore, l’immaginazione deve lavorare di meno. Invece col bianco e nero c’è tutta una tessitura che va dal bianco, al più bianco, al grigio, al nero, al nero nero, al nero venato di grigio. Per esempio il lavoro di di Venanzo per 8 e 1/2, o La ragazza di Bube, o Salvatore Giuliano, o L’eclisse. La scena di Jeanne Moreau che cammina per la città in La notte, non posso assolutamente immaginarla a colori. In Marathon il bianco e nero parte dalle caselle delle parole incrociate, o dal colore metallico della metropolitana. A New York non abbiamo alberi o fiori, e dove ci sono li ho tagliati. New York è una città metallica. Anche il suono di New York è diverso. Può essere infernale, ma lo amo. Se riesci a vivere a New York, sarai re da qualsiasi altra parte.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Procedo sempre per trilogie. Ho realizzato due trilogie in Iran e una su Manhattan. E i miei temi formano un triangolo: suono, ossessione, città. Ecco di cos’è fatto il cinema di Amir Naderi. Adesso sono pronto per una nuova trilogia, più rischiosa. Il primo film sarà Naked Radio. Niente di quello che si è abituati ad associare a film sulla radio, con gente seduta che parla, sarà qualcosa di molto diverso. Probabilmente sarà il mio ultimo film a New York, la mia esperienza lì si sta concludendo. Il secondo sarà a Las Vegas, un inferno dei nostri giorni, e il terzo in Texas, e sarà chiamato Sand Barrier.

Come nasce il tuo amore per il Giappone?

Amo moltissimo il cinema giapponese. Anche lì la nuova generazione è meno interessante, sta perdendo la sua identità, troppo influenzata dal cinema hollywoodiano, a parte qualche ottimo regista come Kurosawa Kijoshi o Sabu. Ma Mizoguchi, Shindo, Naruse, Oshima, Kobayashi, Ichikawa, Ozu... Il miglior stile di montaggio al mondo è quello giapponese. Tutto - l’uso del bianco e nero, i movimenti di camera, il modo di narrare una storia - in questi maestri è di grande modernità. Se guardate Marathon, ci trovate per esempio L’arpa birmana di Ichikawa. Non ho mai fatto scuole di cinema. Andavo al cinema, mi sedevo e guardavo. La mia scuola è stato il cinema giapponese. Ora il mio sogno è andare in Giappone, e realizzare anche lì una trilogia. Ma al momento è un po’ troppo caro per me.

[gennaio 2003]


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