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La prima neve - Intervista ad Andrea Segre

Pubblicato il 16 ottobre 2013 da Filippo Baracchi


La prima neve - Intervista ad Andrea Segre

Fresco di vittoria al festival di Annecy e della presentazione positiva a Venezia 70, nella sezione Orizzonti, La prima neve di Andrea Segre affronta l’incontro e il confronto tra la vita del piccolo Michele, rimasto orfano del padre, e del rifugiato Dani, padre-vedovo con una figlia da accudire e da crescere.
Abbiamo intervistato il regista prima dell’uscita del film nelle sale italiane il prossimo 17 ottobre.

La prima neve può essere considerato un film di passaggio/transizione dal punto di vista narrativo?

La prima neve è un film in cui l’incontro apre una speranza di cambiamento in una direzione che i protagonisti non immaginavano che avvenisse in quel senso. In un certo senso ci può essere un passaggio.
Capita nella vita che il dolore che hai dentro, anche quello più ingiusto, più forte, più ingiustificabile, può trovare una sua strada di elaborazione, di soluzione solo se non rimani da solo con te stesso, o da solo con le stesse persone che hanno vissuto quel dolore.
Dal momento in cui trovi il coraggio di confrontarti e di confrontarlo con altri e di dargli peso e di raccontarlo ad altri, sicuramente è pesante perché devi riviverlo, ma quel riviverlo permette di rielaborarlo.
In fondo è questo quello che fanno Dani e Michele: trovano il coraggio di raccontarlo a qualcun altro. E’ talmente altro che ti dà la possibilità di farlo.
Quanti dolori anche a livello collettivo, non solo a livello privato, rimangono irrisolti e irrisolvibili perché vengono visti sempre dallo stesso punto di vista.

Se vuoi la tragedia di Lampedusa di questi giorni e le immagini bruttissime, terrificanti dei corpi sono lo schiaffo che purtroppo era necessario per la comunità italiana perché iniziasse a vedere questa cosa con un punto di vista che non voleva prendere.
Un punto di vista altro che non voleva accettare di pensare.
Senza nessun cinismo ma con molta realtà, questi sono 300 su circa 19.000 morti per raggiungere l’Europa. Sono pochissimi se parliamo di quantità.
Ma dal punto di vista qualitativo quello che succede alla comunità quando si trova da un altro punto di vista è di saper riconoscere il proprio errore, la propria violenza, come raccontabile e quindi elaborabile. Ed quello che Dani e Michele riescono a fare insieme.

I drammi privati di Dani e Michele sono su due piani diversi?
Quello di Michele è imprevisto mentre quello di Dani è forse prevedibile?

Sono entrambi ingiustizie intollerabili in ogni caso. Non può essere spiegato diversamente. E’ innaturale essere figlio ad otto anni senza poterlo essere, e allo stesso tempo diventare padre vedovo nello stesso momento. Sono due dolori innaturali. Non c’è una cosa che puoi dire "vabbé andata così". Non c’è una via d’uscita. Non c’è nessun modo per togliere via l’assoluto da questo dolore. Esiste comunque la possibilità di esprimere questo dolore e dargli un nome e far uscire e costruire una possibile relazione con quel dolore tanto che si riesce a raccontarlo a qualcun’altro. Per raccontarlo a qualcuno ci vuole un vero "qualcun’altro" perché sennò non lo racconti. Michele non lo racconta a quelli che gli stanno attorno (Fabio e Pietro).

La figura di Michele ricorda i giovani protagonisti dei film neorealisti come Ladri di Biciclette e Sciuscià.
Sei d’accordo su questo?

Ho voluto lavorare con altri bambini perché i bambini rappresentano il terreno per antonomasia per lavorare tra la finzione e la realtà/documentario. Se vuoi raccontare i bambini e il loro mondo di esprimersi devi entrare nella dimensione di co-autorialità. Non è una trasformazione a tuo uso e consumo. Non a caso il cinema neorealista ha lavorato molto con i bambini. Dunque la scelta di lavorare con i bambini è la continuazione di un percorso che si costruisce dalla realtà.

Michele si può definire un bambino adulto?

E’ un bambino che è stato costretto a diventare grande prima del dovuto. Rimanere orfano a nove anni ti consegna ad un’assenza di riferimento adulto che riempi cercando in più modi quell’adulto che ti manca a fianco.

In una recente intervista in un magazine hai dichiarato di una società di preoccupazione esagerata intorno ai bambini.
Puoi spiegare meglio questo concetto?

Diventando padre, ho scoperto che la gran parte delle nostre città non è costruita attorno ai bambini. Quello che facciamo noi genitori è proteggere i bambini dalla criticità. Li mettiamo a giocare dentro le ringhiere, li teniamo negli spazi chiusi. Vedere bambini che giocano negli spazi aperti è difficile. Quello che rappresenta Matteo e i suoi amici è quel pezzo di infanzia che abbiamo castrato in qualche modo, che porta il bambino a crescere in una direzione le cui energie sono minori. Questo è un peccato e un grosso errore.

Secondo te, su quali basi si può fondare una pedagogia per una nuova società?

Ridisegnando le città e dunque la loro mobilità. Nel momento in cui ricostruisci la città dal punto di vista dei bambini, rendi la città migliore e più vivibile. Se pensiamo ad uno spazio oggi con gli occhi di un bambino, questo cambia.

Ritornando al film, la scelta di attori italiani noti al grande pubblico nei ruoli secondari e di attori non noti invece in quelli principali si può considerare una tua cifra stilistica?

Cerco sempre di scegliere persone adatte alle storie che racconto. Non seguo la regola per cui fare un film ci vuole un attore famoso.
Se mi proponessero Toni Servillo per un film e lui andasse bene, naturalmente lo sceglierei.

Come sono nate le musiche del film?

L’idea con cui abbiamo lavorato con La Piccola Bottega è trovare degli elementi musicali nella storia e poi lavorarci attorno (la fisarmonica di Michele, la Ninna Nanna di Sadia). Lavorare dunque su una musicalità che è un po’ rischiosa, ma non ha paura della melodia, nonostante voglia essere non orchestrata, con pochi strumenti, che mantiene una centralità della musica come linguaggio a sé e non soltanto a servizio dell’immagine.

Soddisfatto della presentazione a Venezia?

Sì, molto. Soprattutto delle due proiezioni in cui non sono stato presente (Palabiennale e Arena San Polo), visto che ci sono stati dei lunghi applausi.

Attese sull’uscita del film?

Mi auguro che sia data al pubblico la possibilità di generare con il tempo l’interesse al film, e allo stesso tempo ci siano le condizioni per cui il successo del film venga stabilito veramente dalla relazione che il pubblico avrà con esso, e non da altre regole. Quello che ho chiesto alla distribuzione e su cui stiamo lavorando è di dare tempo al film con questa relazione con il pubblico.

E dunque attraverso le anteprime che state già facendo e poi successivamente con le proiezioni con le scuole?

Sì stiamo portando avanti questo progetto intitolato La prima scuola, che sta andando bene, visto che sono stati raccolti 10.000 euro ancora prima della distribuzione ufficiale del film. Non vuole essere un progetto chiuso, fatto per essere consumato. Ma ci deve essere una comunità progettuale attorno al quale costruire una sfida comune.


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