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Intervista a Dardano Sacchetti

Pubblicato il 18 ottobre 2004 da Antonio Pezzuto Mazzino Montinari


Intervista a Dardano Sacchetti

“La sinistra ci attaccava, la destra non ci difendeva”. A parlare è Dardano Sacchetti, sceneggiatore principe degli anni Settanta, collaboratore di registi come Argento, Lenzi, Fulci, Bava, Margheriti, Damiani, Soavi e tanti altri ancora. Difficile, per un autore che ha scritto 155 film più alcuni programmi televisivi di successo come Telefono giallo, seguire tutto quello che ha da dire, gli aneddoti sono tanti, alcuni irriferibili. La frase che abbiamo riportato all’inizio è sintomatica di un’epoca aurea del cinema commerciale italiano: un gruppo di registi e sceneggiatori, produttori e distributori, hanno creato un’industria, realizzando opere d’intrattenimento, quasi sempre riferendosi a fatti tratti dalla cronaca quotidiana. Film nati nel giro di poche ore, leggendo un giornale, facendo una telefonata. Questi uomini erano degli apolidi senza patria politica, non piacevano a sinistra, erano ignorati a destra. Quello che è certo, erano apprezzati da un pubblico eterogeneo che si divertiva magari non facendo caso ai sottotesti presenti in alcuni film. Ospite del Nightmare Ravenna Film Fest in qualità di giurato, abbiamo intervistato Dardano Sacchetti con l’intento di capire qualcosa in più del cinema di quegli anni, attraverso l’esperienza di un uomo che coerentemente non rinnega niente del suo passato e presente, nemmeno l’aver firmato la sceneggiatura non sua di Pierino il fichissimo o la scrittura più recente di Alex l’ariete con Alberto Tomba.

Come nascevano i vostri film?

Scrivevamo storie seguendo in presa diretta la realtà sociale di quegli anni. Va detto che spesso non eravamo consapevoli dei contenuti di cui ci facevamo portatori. Non esprimevamo considerazioni di ordine sociologico. La realtà era sfruttata per narrare una storia e per produrre film di puro intrattenimento. Prendiamo, ad esempio, Milano calibro nove, era tratto da un fatto di cronaca nera, una sorta di instant movie. Quello che ci interessava però era il rituale: la rapina, l’omicidio e così via. Leggevamo i giornali e spesso capitava, quasi come in una redazione, che dopo una telefonata si cominciasse a scrivere la sceneggiatura. Per quanto riguardava le azioni più spettacolari, esistevano già delle scene girate in luoghi e con situazioni utili al caso specifico. C’era chi si occupava di effettuare le scene degli inseguimenti a prescindere dal film in questione. Quando il progetto era pronto per essere realizzato, si sceglieva il “pacchetto” adatto all’occasione. Oggi quei polizieschi girati in quel modo non si possono più fare, il pubblico è più smaliziato, i vecchi trucchi alla Bava o le scene d’azione non sono più credibili. Dall’Esorcista in poi gli americani hanno dato un colpo di acceleratore per quanto concerne gli effetti speciali. Lo spettatore che oggi vede Face/Off non può più accontentarsi di un’opera artigianale anni Settanta.

Che senso dai allora alla rivalutazione in atto di quel cinema? Influirà anche nell’immaginario visivo dei registi della nuova generazione?

Bisognerebbe essere cauti nel recuperare il cinema degli anni Settanta. Se si prende tutto si finisce per mettere nel contenitore anche tanti lavori mediocri che non meritano attenzioni e rivalutazioni. E’ necessaria una rilettura mirata che punti a poche cose ma valide. Con Fulci ho lavorato a una decina di film, ma solo due o tre sono buoni. Per quanto riguarda i registi odierni, la prima differenza che mi viene in mente è che mentre ieri i film guardavano fuori, oggi compiono delle letture introspettive. Ad ogni modo, se devo fare dei nomi di registi che potrebbero riportare in auge il cinema di genere, il primo che cito è Alex Infascelli. Potenzialmente potrebbe essere in Italia una sorta di Tarantino, anche se non gli permettono di lavorare. Un altro autore che ha grosse qualità è Soavi, lui potrebbe essere come un Besson italiano, ma è costretto a ripiegare in televisione perché il cinema non glielo fanno fare. Questo è il punto: oggi esiste solo la televisione che produce e che detta la linea, i soli veri produttori sono Leone, Marchitella e Saccà, sono loro che decidono cosa produrre e chi può lavorare. Sono loro a dettare le regole dell’immaginario. L’ultimo vero produttore è stato Cecchi Gori, e lo hanno massacrato.

Pensi che la televisione sia l’origine dei mali del cinema italiano?

Prendiamo Distretto di polizia. E’ un prodotto che come utente non mi interessa, anche se è da considerarsi la migliore serie realizzata in Italia. Il problema è che non racconta storie di polizia, ma storie umane di poliziotti. E’ passato lo stile imposto dal “Maurizio Costanzo Show”, si racconta il privato di un poliziotto, il privato di un prete, il privato di un nonno. La serie che ha orientato le scelte produttive successive è Il maresciallo Rocca. E’ un prodotto nato dopo la cattura di Totò Riina. L’intento era quello di spingere sull’immagine positiva delle forze dell’ordine. E visto il successo, i produttori hanno immediatamente sfruttato questo filone. Io stesso adesso sto lavorando a un progetto sulla Guardia di finanza. I compromessi sono molti. Per spiegarti a cosa alludo è necessario un altro esempio: La squadra. C’è un vicequestore, Antonio Del Greco, che ha contribuito a sgominare la banda della Magliana e che è responsabile del Commissariato dal quale dipende il Quirinale. Lui partecipa alle riunioni già dalla fase della stesura del soggetto. E non è semplice contrastare chi ti può offrire mezzi e location. In Italia non ci sono i soldi e quindi c’è una sorta di servilismo psicologico. Aggiungiamo il fatto che la Rai paga dopo dodici mesi e i produttori sono costretti a rivolgersi alle banche per farsi scontare i crediti, creando dipendenze ulteriori. Tutto questo rende molto difficile il lavoro. Ne consegue che alcuni produttori si sono coalizzati in una specie di cartello per tutelare i propri interessi. Loro lo fanno per sopravvivere e con ciò impediscono a chi è fuori dal giro di riuscire a emergere, che si tratti di esordienti o di autori indipendenti.

Ma anche il cinema degli anni Settanta era legato ai soldi.

Non c’è dubbio che il nostro fosse un cinema precario. I produttori rubavano sul budget, non sapevano se poi avrebbero fatto un altro film, o se quello che stavano producendo sarebbe mai uscito. Perciò intascavano i soldi e utilizzavano il minimo per realizzare il progetto. Trent’anni fa, i film si facevano con le cambiali e produttori e registi potevano affermarsi anche non facendo parte del grande giro. A differenza di oggi, il vero finanziatore del cinema era il pubblico e questo faceva la differenza perché determinava un altro modo di intendere il cinema. La stessa distribuzione era diversa. Un film rimaneva in sala per più mesi e gli incassi si prevedevano non sulla base di una settimana. Si partiva con la prima visione, poi con la seconda e la terza. Dal centro si procedeva verso le periferie. In questo modo gli incassi erano sufficienti a ripagare tutti. In quel sistema pieno di vizi e virtù, capitava che ci si incontrasse e che si facessero film con le persone che in quel momento ci stavano simpatiche. Io stesso ho iniziato a lavorare con Dario Argento in modo fortuito. Ci siamo incontrati una volta a casa sua e abbiamo deciso di fare un film insieme - Il gatto a nove code - anche se fino ad allora non avevo scritto ancora nulla.

Hai iniziato da giovane facendo politica ed eri di sinistra. Tuttavia, nei tuoi film più di una volta era presente la figura del giustiziere, del poliziotto che deve fare di testa sua perché ostacolato dalla legge, tutto ciò poteva collocarti a destra. Come vivevi questa contraddizione?

Facevo politica, da giovane. Sono figlio di un importante sindacalista e militavo nella federazione dei giovani comunisti dalla quale sono uscito, in seguito, su posizioni di sinistra, a causa dei contrasti sulla guerra nel Vietnam. Scrivevo delle poesie, ed è stato per caso che ho iniziato ad interessarmi al teatro, avevo voglia, agli inizi, di fare l’attore. Poi sono arrivato a Torino, dove ho visto il New American Cinema (John Mekas). E così sono entrato in questo ambiente. All’inizio non c’era distinzione tra registi di genere o meno, si faceva cinema e basta. Solo in un secondo momento qualcuno ha iniziato ad accusarci di essere fascisti, ma solo perché non eravamo parte di un certo gruppo politico. Il risultato fu che la sinistra ci attaccava, la destra non ci difendeva. Per quanto mi riguarda, con il personaggio interpretato da Thomas Millian, er monnezza, credo di aver creato una figura rivoluzionaria che decostruiva il mito del poliziotto integerrimo, individualista e, sostanzialmente, di destra. Con er monnezza ho inventato un personaggio di borgata, ho preso l’uomo che normalmente viene relegato ai margini della società. Non penso proprio che fosse espressione diretta di una cultura di destra. E poi con più di cento film alle spalle, non è corretto inserirmi all’interno della categoria “cinema di genere”. Io faccio cinema e televisione e mi riconosco in tutto quello che ho realizzato, anche nei film che non ho scritto ma che ho solo firmato (come, per esempio, Pierino il fichissimo). Rivendico tutto quello che ho fatto.

a cura Antonio Pezzuto e Mazzino Montinari

[ottobre 2004]


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