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Intervista ad Aldo Lado

Pubblicato il 18 ottobre 2004 da Antonio Pezzuto


Intervista ad Aldo Lado

Aldo Lado fa parte di quel folto gruppo di registi che negli anni ’70 fece fortuna con il cosiddetto cinema di genere. E’ stato aiuto regista di Bernardo Bertolucci per Il conformista e poi ha diretto film come La corta notte delle bambole di vetro o Sepolta viva. Oggi è un produttore esecutivo e in occasione della sua presenza qui al Nightmare Ravenna Film Fest in veste di giurato, ha raccontato i motivi del successo e del declino di quel periodo che oggi a trent’anni di distanza pare tornato in auge.

Come è nato il cinema commerciale italiano?Il cinema commerciale italiano si è sviluppato per cicli. I film degli anni Sessanta e Settanta si possono dividere per periodi e generi, dal peplum al western, dall’horror alla fantascienza e poi dal poliziesco per finire alle commedie scollacciate. Quei film che oggi vengono raccolti in unico contenitore, fanno riferimento a periodi precisi. C’era un’industria che variava a seconda dei profitti. Ad esempio, produttori e registi videro nelle avventure di Maciste la possibilità di realizzare incassi e così si cominciò a produrre peplum. Con l’avvento di Sergio Leone si passò ai western e così via. L’elemento che accomuna i film di quel ventennio è l’esistenza di una vera e propria industria cinematografica che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta è entrata in crisi e per poi sparire. In quel circolo virtuoso si inserivano piccoli e grandi produttori che credevano in ciò che facevano. Di fatto, l’industria cinematografica aveva la capacità di muoversi seguendo la domanda e con ciò producendo l’offerta. C’era una filiera di tipo squisitamente commerciale, come una qualsiasi altra industria, e in essa erano coinvolti i produttori, i distributori (soprattutto quelli regionali) e gli esercenti. Questa industria è morta per diverse ragioni. Molto è dipeso dallo sperpero di cinema che dal 1979 in poi si è fatto con l’avvento delle televisioni private e locali. Hanno iniziato a trasmettere qualsiasi cosa e si è smesso di andare in sala. Un’altra delle cause è la scomparsa dei divi, il nostro era anche un cinema di divi, attori che invogliavano ad entrare nelle sale, e ce ne erano di tutti i tipi, penso a Jean Sorel o anche a Luc Merenda.

E i registi? Trent’anni fa si realizzavano più di 200 film a stagione. I giovani registi apprendevano il mestiere con l’aiuto regia e dopo la gavetta potevano esordire facilmente, usufruendo di un budget di un certo livello. Erano artigiani che insistevano su un genere specifico e in quel modo potevano fare esperienza senza pensare all’autorialità e a quell’autocompiacimento che, invece, sembra affliggere i registi di oggi. Detto ciò, il problema non era tanto fare il primo film, quanto continuare con il secondo, il terzo e via dicendo. Si entrava in un giro di produttori che chiedevano di fare delle cose, dando poche possibilità di scelta. A quel punto, se si voleva fare un film si doveva sottostare alle esigenze di mercato seguendone le regole. Se la richiesta era il film western non si poteva di certo realizzare un’opera in costume. Da questo punto di vista, il regista ha sempre dovuto autocensurarsi, ossia è stato costretto a pensare sempre alle storie in relazione al filone che in quel momento il mercato imponeva. Non era possibile fare quello che si voleva.

Questo discorso vale anche per i tuoi film? Certo. Ho cominciato scrivendo e apprendendo il mestiere di regista per poi dirigere i miei film in prima persona. A un certo punto, però, mi sono stancato di dover accettare i limiti imposti dalle produzioni e, così, invece di litigare per realizzare quei progetti ambiziosi che in ogni caso non mi facevano fare, ho preferito intraprendere una carriera diversa che si basasse sulle esperienze precedenti da regista. Sepolta viva, per esempio, era un progetto nato pensando a Paolo Poli nel ruolo della protagonista. Era una provocazione forte, ma proprio le condizioni del mercato di quel momento non me lo hanno permesso. Il film si sarebbe potuto fare anche senza di lui, ed io l’ho fatto con l’esordiente Agostina Belli. Inoltre, pensavo di ambientare il film in Sardegna, perché il tipo di realtà che si rappresentava nella storia di Sepolta viva era ancora presente in certe zone meno sviluppate, ma anche questo mi fu negato.

A quale pubblico era rivolto Sepolta viva? Ad un pubblico popolare, ma non solo. Era molto interessante vedere in che modo cambiava la percezione del film, in relazione alle sale e al pubblico che le frequentava. C’erano le signore che in quel mondo vivevano o che lo sentivano a loro prossimo, e che avevano una sorta di immedesimazione nel personaggio. C’erano, invece, i giovani che di quelle storie ridevano cogliendone il lato (volontariamente) kitsch.

Quali attori preferivi dirigere?Oltre che con Agostina Belli ho lavorato anche con un grande personaggio come Laura Betti. Tuttavia, non sempre ho potuto lavorare con attori bravi. E a dire il vero, con i non bravi era molto più semplice: gli si diceva precisamente cosa fare e come muoversi senza farli recitare. Il doppiaggio avrebbe aggiustato tutto. Laura Betti non era tanto disposta a farsi comandare senza porre obiezioni.

La corta notte delle bambole di vetro, invece, è il tuo film d’esordio. Più che un horror sembra un manifesto politico pienamente aderente alla realtà di quegli anni caldi.Nel 1971 era in atto una trasformazione culturale e politica che produceva forti conflitti. Nel mio film volevo attaccare il potere politico reazionario e la borghesia che cercava di resistere a quei cambiamenti. Per questo ho pensato in modo metaforico a una storia nella quale le vittime fossero tutte giovani donne che non sottomettendosi all’ordine precostituito venivano letteralmente addormentate e in seguito uccise. Anche il protagonista - Jean Sorel - subisce la stessa sorte perché non si arrende, perché vuole scoprire la verità. La critica accolse favorevolmente questo mio primo film ma non comprese il contenuto fortemente politico e sociale. Io, in realtà, criticavo i potenti che mandavano a morire, anche in tempo di pace, i giovani in assurde guerre e ho usato il giallo o l’horror come uno strumento e non come un fine.

Oggi i vostri film sono stati riscoperti tanto da ricevere l’onore di una retrospettiva a Venezia, oltre ai programmi televisivi e ai documentari dedicati proprio a quelle pellicole. Sei sorpreso? Mi sorprende pensare oggi al successo che questi film stanno avendo, e mi sorprende pensare che attraverso quel cinema si pensi di raccontare quegli anni. Io, per quanto possibile, cercavo di mettere per immagini le storie che mi interessavano e divertivano. In ogni caso, mi sembra chiara la differenza tra il cinema popolare di quegli anni e quello odierno. I Vanzina e Neri Parenti, per esempio, realizzano film costruiti addosso a personaggi noti che in molte occasioni provengono dai programmi televisivi. Negli anni Settanta, affianco al nostro cinema, c’erano diversi registi molto attenti alle tematiche sociali. E anche noi prendevamo spunto dalla cronaca. La commedia di oggi, invece, non ha peso. Forse il nostro cinema è stato ripreso, in parte, dalle serie televisive di oggi anche se per motivi di censura quello che è possibile vedere in una sala non si può trasmettere sul piccolo schermo e perciò sarebbe difficile produrre un vero horror come si faceva ai tempi di Bava.

[ottobre 2004]


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