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Considerazioni su Krzysztof Kieslowski

Pubblicato il 14 marzo 2009 da Salvatore Salviano Miceli


Considerazioni su Krzysztof Kieslowski

Capita, a volte, di farsi prendere dalla forza delle emozioni. Capita, a volte, di mettere da parte nozioni, studi e tecnicismi. Capita, a volte, di lasciarsi trasportare dalla metafisica di un’immagine, di rimanere commossi da una luce bianca che diventa arbitrio, scelta, vocazione, semantica. Capita, a chi ama il cinema, lo studia e lo vive come arte tra le più incisive e complesse, di scoprirsi repentinamente spogliati del verbo e trasportati in un’isola bagnata dai sensi di noi esseri umani; sensi, però, slegati dalla materiale fisicità del nostro esistere.
Ecco perché scrivere di Kieslowski costringe ad un esercizio complesso e crudele. Abbandonare l’estasi figurativa e percettiva per tornare alla mera costruzione di parole che un breve saggio rappresenta, cercando, però, di lasciare entrare brevi attimi di quel respiro e di quel profumo di libertà creativa e di potenza evocativa che l’artista polacco ha lasciato entrare in ogni sua opera. Kieslowski non mette in scena il raggiungimento dei traguardi. Tralascia volutamente di illustrare i concetti di successo e fallimento. Il suo cinema è un caleidoscopio di strade che non si cura di mostrare la realizzazione di un perseguimento, ma che focalizza gli attimi, le stasi e le accelerazioni di un viaggio verso qualcosa che non ci è dato di sapere e conoscere.
Il suo occhio, incarnato in modo complementare dalla sua macchina da presa, astrae la vita riconducendola, paradossalmente, alla tangibilità più esasperata. Commedia e Dramma mischiano la loro reciproca natura ontologica dando luce e raffigurazione a quel circolo continuo e perpetuo, in cui i sorrisi inseguono le lacrime in un gioco, almeno apparentemente, privo di scopo e di senso, che è la natura stessa del nostro stare al mondo. Sembra che voglia dirci di abbandonare per un attimo la ricerca spasmodica di significato, insegnandoci che se esso c’è non è grazie al materiale che si può rintracciare, ma è privandosi di ogni sovrastruttura cerebrale, aprendosi all’inondazione di sospensioni da ascoltare e sentire in silenzio, da metabolizzare ritornando ad una naturalità percettiva infantile in grado di creare collegamenti che vanno oltre i confini confutabili al tatto, di colmare i vuoti di una solitudine costrittiva con la certezza di una comunione tra anime (La doppia vita di Veronica - 1991), di aprire Dio e le sue leggi alla nostra comprensione e falsificabilità (Il Decalogo- 1989).
Kieslowski cuce la luce con tessuti nuovi investendo politica ed umanità, termini che sarebbe giusto considerare sinonimi, quando rielabora Libertà, Uguaglianza e Fraternità, concetti cardine della Rivoluzione Francese, nella sua Trilogia dei Colori. Nel suo lavoro di tessitore fotografico, chiama come unico soggetto da rappresentare la vita, in ogni sua manifestazione, nel suo doloroso incedere, nella sua stupefacente capacità di alternare felicità e disillusione, vicinanza ed allontanamento. Impossibili da leggere separatamente, se davvero si vuole arrivare al nucleo costitutivo del progetto, i tre film sono incarnazione (carne e sangue) ed evocazione (spirito e respiro), al contempo, di ogni sfaccettatura dell’esistenza. Da spettatori, ci è dato il privilegio di assistere al prodigio di una selezione semantica incessante di prismi di luce, di lampade che si fulminano e si riaccendono diventando fulcro emotivo e paradigma ontologico (Tre Colori: Film Bianco- 1993), di volti ed azioni, di parole dette e celate, di amore il cui furore si esplica nella vendetta (Tre Colori: Film Rosso- 1994), di lacrime soffocate ma incipienti e di necessari, dolorosi ma inevitabili ritorni alla vita (Tre Colori: Film Blu- 1992-93).
Ci sono molti modi e numerose vie per interpretare il ruolo di autore. Kieslowski ha scelto la maniera più naturale ed incisiva. Abbandonando il superfluo, ha deciso di servirsi di immagini e di parole semplici, prive di costruzioni cerebrali, la cui complessità è dissolta nel procedere, nell’avanzare dei suoi film, schegge di parabole che a tutti noi appartengono e di cui siamo stati, almeno una volta, protagonisti. Quello che ci viene chiesto è di aprire gli occhi, di sgombrare la mente da tutto ciò che, spesso inutilmente, l’affolla e di accogliere con libertà quello che la sua macchina da presa ci ha offerto lungo una carriera ed un’attività artistica che, oggi come ieri, a dieci anni dalla sua scomparsa, lo ha reso uno dei più geniali cantori europei, poeticamente e strutturalmente, della condizione umana.

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